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Apologie Paradossali

L’ALDILÀ E L’ALDIQUÀ

COSTANTE PORTATADINO - 05/07/2013

Ho simpatia per gli atei dichiarati. Davvero! Riesco a sopportarli anche quando vengono fatti diventare icone dell’irreligiosità o dell’anticlericalismo, che sono cose del tutto diverse. Perciò, badate bene, le mie considerazioni a proposito delle parole di Margherita Hack, riferite da stampa e televisione come “ testamento spirituale”, non vogliono affatto sminuire il valore della persona che le ha pronunciate, cui riconosco altissimi meriti guadagnati in altra sede. Reagisco con irritazione, invece, alla banalizzazione con cui vengono trattati certi argomenti.

Ricordo due frasi, buttate lì da qualche telegiornale: “Mi sono sempre interessata più dell’aldiquà che dell’aldilà” e “Non ho paura della morte, perché sono convinta, come Epicuro, che finché ci sono io non c’è la morte, quando c’è la morte non ci sono più io”.

Condivido totalmente queste affermazioni, osservo solo che, buttate fuori da un contesto molto specifico, sembrano poco significative. E ribadisco che le considerazioni seguenti prendono spunto da queste frasi, ma non si pongono in polemica con chi le ha pronunciate.

“Aldilà” significa una vita oltre la morte? La vita di chi? Sono ancora io in gioco o una pallida immagine di me, la fuggevole ombra dei Cimmeri o il fantasma dello Sheol?

Anch’io mi sono sempre interessato di più all’aldiquà, almeno dai quindici anni in poi, quando un confessore francescano della Basilica di sant’Antonio di Padova mi fece capire che l’anima non era una parte di me, da portare “aldilà” come una vecchia valigia piena di ricordi e zavorrata di peccati, ma coincideva con il mio io, ero io.

Parimenti la nota sentenza epicurea può essere ripetuta come un mantra, ma se può avere qualche efficacia consolatoria su psicologie sensibili alla paura dell’ignoto, non ha alcun valore conoscitivo, in quanto evidentemente presuppone ciò che intende dimostrare: la finitezza dell’essere umano, l’irrevocabilità del suo passaggio dall’essere al niente.

Penso che l’equivoco consista nell’attribuire al cristianesimo una concezione dell’anima riconducibile a Platone, meglio, a Pitagora. Un dualismo metafisico, anima-corpo, idea-materia, ragione-realtà, che apre la strada ad ogni possibile dualismo. Per i cristiani non è così, non può essere così. Avendo come modello Cristo che risorge dai morti con il corpo, che si manifesta vivo con il corpo, un corpo che assume sembianze gloriose, il dualismo è impossibile teologicamente.

Quando pure ammettessimo che molta cultura popolare cristiana non sia stata perfettamente chiara su questo punto, così da far pensare che il senso della vita fosse l’accumulare di un numero sufficiente di “punti paradiso” per potersi meritare il biglietto per il viaggio “aldilà”, dobbiamo ribadire con forza che la verità non è questa.

Aldilà, per me, non è nient’altro che il senso mancante dell’aldiquà, una domanda la cui risposta non è rintracciabile in un mondo separato dal presente e ad esso inattingibile, ma che, al contrario, è valida e credibile solo in quanto sia capace di rendere ragione delle contraddizioni e dei misteri del presente. Non posso non occuparmi del senso del mio presente e non posso non riconoscere che proprio in ragione della mia finitezza (la seconda frase citata) non potrò essere contemporaneamente sui due lati del confine tra presenza e assenza, tra vita e morte.

Finché dunque sono presente a me stesso e alla realtà, non posso smettere di indagare la totale positività della realtà stessa, cercando la conferma della sua irriducibilità a sogno o illusione o inganno deliberato, facendo spazio nella mia mente (o dovrei dire anima?), insieme, al catalogo dei fatti accertati che costituisce l’orgoglio della scienza e, (ripeto: insieme) al tentativo di enunciazione del senso di quegli stessi fatti e di molti altri che sfuggono all’indagine della scienza, ma non alle domande della ragione.

L’ateo ed io percorriamo un gran pezzo di strada insieme, di qui la mia simpatia, che non viene meno neanche quando egli (od ella) si arresta prima della domanda ultima, purché lasci a me la possibilità di formularla.

La risposta, lo so bene, non la produco io, non è un mio merito. Se ce l’ho, è perché l’ho avuta in dono e non me ne potrò vantare.

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