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Cultura

IL “NUDO SASSO” DELLA TRINITÀ

PAOLA VIOTTO - 23/01/2014

L’insolito inverno che stiamo trascorrendo può far dimenticare che nel Seicento e nel Settecento, nel corso di quel generale abbassamento delle temperature nell’emisfero settentrionale che gli storici del clima chiamano “piccola era glaciale”, anche a Varese faceva così freddo che d’inverno il lago ghiacciava e poteva essere attraversato a piedi. Si spiega così una suggestiva leggenda nata intorno all’origine della chiesa della Trinità al Sasso di Gavirate.

In un gelido inverno di tanti secoli fa un cavaliere alla disperata ricerca della sua dama percorse a cavallo una vasta pianura desolata. Soltanto dopo essere arrivato su un rialzo roccioso si rese conto di aver in realtà attraversato il lago gelato e, come ringraziamento per lo scampato pericolo, fece costruire una piccola cappella nel luogo in cui era miracolosamente giunto sano e salvo. Questo luogo, che i documenti antichi definiscono “nudo sasso” era un punto importante situato lungo la strada da Comerio a Gavirate, ed era così spoglio di vegetazione da permettere la vista del lago. La cappellina, esistente almeno dalla fine del Cinquecento, venne ampliata nella seconda metà del Seicento. Una volta decisa la costruzione di un nuovo edificio esso fu eretto intorno a quello vecchio, così che l’affresco della Trinità, appartenente precedentemente all’abside, venne a trovarsi sulla parete orientale e la costruzione intera fu orientata a nord. Nel 1713 la chiesa era praticamente terminata, tanto che venne benedetta dal Prevosto di Besozzo. Da allora non ha subito interventi di spicco, tanto che conserva la forma originale, mentre l’ambiente esterno è profondamene mutato.

La chiesa ha una sola navata di forma allungata ed è preceduta da un portichetto con quattro colonne di pietra, dove c’è una porta fiancheggiata da due finestrelle, attraverso le quali i fedeli potevano guardare ammirati l’interno. Se infatti l’esterno è sobrio e classicheggiante, appena varcata la porta ci si trova in uno spazio tipicamente rococò, ornato da stucchi esuberanti e raffinati.

Angioletti e putti; rose, gigli e foglie d’acanto; mascheroni e figure mitologiche incorniciano le tele con figure di sante e santi disposte sulle pareti. Gli stucchi stessi non sono puramente decorativi, ma richiamano il tema di ogni singolo dipinto, anche grazie alle iscrizioni latine che li completano. La cornice ottagonale che circonda la tela con San Mauro abate, ad esempio, è caratterizzata da due putti, che reggono la mitria e il pastorale, insegne della dignità abbaziale.

La testimonianza più antica che possiamo trovare nella chiesa è però l’affresco che apparteneva alla cappella originaria. L’intenzione di mantenerlo pressoché intatto, anche se è assai diverso dagli altri dipinti delle pareti laterali per tecnica e stile, è confermata dalla forma della cornice che differisce dalle altre, permettendo anche di intuire il profilo ad arco della minuscola costruzione primitiva.

La scena raffigurata è appunto una Trinità, raffigurata secondo l’iconografia tradizionale: al centro Gesù crocifisso, alle sue spalle Dio seduto su delle nubi e una colomba. Ai piedi della croce sono inginocchiate la Madonna e Santa Caterina d’Alessandria, riconoscibile dalla ruota e dalla corona. Questa presenza conferma l’origine devozionale dell’affresco, riconducibile al linguaggio della pittura popolare di primo Seicento nella nostra zona. La cornice in stucco, sormontata dalla scritta “Trinus et unus” si svolge invece con la stessa sicura eleganza delle altre decorazioni della chiesa, facendo presupporre l’intervento di artigiani esperti e culturalmente aggiornati.

Lo stesso contrasto fra materiale povero ed esecuzione d’effetto si osserva nel paliotto dell’altare, realizzato in scagliola, gesso colorato con cui si riesce ad ottenere una buona somiglianza con il marmo. Nei due scomparti laterali ha motivi decorativi di uccelli e garofani, mentre in quello centrale è nuovamente rappresentata la Trinità. Manca purtroppo sull’altare la tela antica, sostituita da un’opera del Mascioni datata 1922, ma eseguita con uno stile rispettoso del contesto settecentesco in cui è inserita.

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