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In Confidenza

SIAMO A CASA, NON IN TRIBUNALE

Don ERMINIO VILLA - 10/10/2014

Rembrandt, Il ritorno del figliol prodigo, Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo

Rembrandt, Il ritorno del figliol prodigo, Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo

Sempre a proposito della crisi del sacramento, per aggiornare il linguaggio che non solo non snatura i significati, ma piuttosto li interpreta nel modo più consono all’uomo moderno, trovo magistrale questa lezione: “Cosa deve succedere alla nostra anima quando ha santi segni e compie sante cerimonie senza più avvertire la realtà che vi è racchiusa? […] Qui dobbiamo iniziare il rinnovamento. Non distruggere l’“invecchiato” e trovare il “nuovo”. Le grandi parole e le grandi forme della Chiesa scaturiscono dalle profondità essenziali. Cosa mai dev’essere qui mutato? […] Ci è possibile, però, un’altra cosa: ridare loro il proprio senso. Cioè: vedere la realtà che dietro di essa giace. Rivivere ciò che si pronunzia. Allora le forme si svolgeranno dall’interiore pienezza” (R. Guardini, Lo spirito della liturgia – I santi segni).

Ci può essere d’aiuto, per capire la dinamica del sacramento del perdono, superare la preoccupazione primaria di elencare tutti i nostri peccati, ritenuta la condizione indispensabile per ricevere l’assoluzione.

La progressiva perdita di ritualità nella gestione di questo rito non solo ha condotto a identificare il sacramento con un semplice “colloquio di carattere giudiziario” – simile a quelli che intercorrono tra imputati e giudici – ma ha finito per oscurare il fondamento stesso del sacramento, che è il ritorno alla casa del Padre, che amorevolmente è sempre pronto e felice di perdonare!

Non c’è dubbio che il dolore sincero dei peccati (la cosiddetta contrizione), l’accusa e la soddisfazione (o penitenza) sono gli atti con i quali il penitente manifesta con verità la sua conversione, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica (1450-1460). Tuttavia, se si concentra l’attenzione solo su questi, si rischia di porre l’accento più sull’azione dell’uomo che non su quella di Dio. Ma la salvezza non è frutto dei nostri sforzi! Anche nel sacramento della Penitenza – come in ogni altra celebrazione liturgica – il protagonista principale è sempre e solo Dio.

Anzi, la stessa conversione è anzitutto un’opera della grazia del Signore, che fa ritornare a lui i nostri cuori.

Ecco perché bisogna dire a chiare lettere che questo sacramento non vale per l’elenco minuzioso dei nostri peccati, ma per la proclamazione della “bella notizia”: nella morte e risurrezione del suo Figlio – come dice bene la formula dell’assoluzione – Dio ci ha manifestato un amore che è più grande del nostro peccato. Qualunque cosa il cuore ci rimproveri, “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Giovanni 3,20).

In conclusione, la confessione non è – e non intende essere – un rito triste, che incute un certo terrore come l’aula di un tribunale, ma è una festa, quella che il padre della parabola imbandisce per la gioia del figlio che “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”!.

Un giorno fu chiesto ad un uomo sapiente: “Hai molti figli: qual è il tuo preferito?”. Rispose: “Il figlio che preferisco è il più piccolo finché non è cresciuto; è quello che è assente, finché non ritorna; è quello malato, finché non guarisce; è quello in prigione, finché non è liberato; è quello afflitto e infelice, finché non è consolato” (Racconto persiano).

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