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Società

QUEI NOSTRI BAMBINI

ANNA MARIA BOTTELLI - 03/05/2019

 

Ogni anno, il 25 aprile, rammento la rapida e imprevedibile decisione di una mia partenza per l’Africa – era il 1994 – insieme a un gruppo di volontari della CRI varesina, alla volta del Ruanda, dove imperversava una guerra efferata. Vi erano diversi bambini, rimasti orfani, da soccorrere. Saremmo partiti il giorno successivo con una équipe sanitaria dell’ospedale di Niguarda, imbarcati su un aereo della Compagnia di S. Paolo per la cosiddetta “Operazione Cicogna”. Atterrati in Uganda all’aeroporto di Entebbe, attendemmo lì i bambini provenienti dal Ruanda – erano neonati, lattanti, bambini grandetti e in età scolare – tutti stremati, sofferenti, feriti, oltre che affamati e assetati. Ci fu da parte di tutti noi un grande impegno per aiutarli a 360 gradi almeno nei bisogni essenziali. Un lavoro di squadra e di intesa rimasto indubbiamente nella mente e nel cuore di tutti coloro che con generosità e competenza parteciparono.

A distanza di 25 anni, qualche ricordo e qualche riflessione.

A seguito del genocidio tra i tutsi dell’Fpr (Fronte patriottico ruandese) e gli hutu (a guida del Ruanda dal 1959) furono circa 1milione le vittime (esattamente 973 mila – 7 per ogni minuto dei 100 giorni infernali, a partire dal 6 aprile 1994) di quel paese allora abitato da quasi sei milioni e mezzo di persone. Più di due milioni e mezzo scapparono oltre confine in appena due settimane. Le chiese dove i ruandesi cercavano riparo venivano prese di mira sempre di più: ovunque segni di morte e di distruzione. Questo dramma fu successivamente definito dal generale canadese Romeo Dallaire, allora a capo del piccolo contingente di caschi blu in Ruanda: “Una sconfitta non solo dell’ONU, ma dell’intera umanità ”. Ora, a distanza di 5 lustri, il paese è andato gradualmente risorgendo, gli abitanti sono 12 milioni – più della metà sono nati dopo il ’94 -, si è modernizzato e spera sempre di più in un processo di completa riconciliazione. Ma, in Ruanda, il paese dalle mille colline, ancora 4 abitanti su 10 vivono sotto la soglia di povertà, in quella componente rurale ben diversa dalla perfetta e moderna capitale Kigali. Credo che di passi se ne debbano fare ancora per riscattare l’uguaglianza dei diritti umani ponendo attenzione ad ogni anche minimo atteggiamento eversivo. Pierantonio Costa, allora console onorario italiano in Ruanda, che ancora vive e lavora lì, recentemente ha rilasciato in un’intervista : “Un genocidio non avviene per caso, o per un improvviso scoppio di barbarica violenza. Viene studiato, preparato, pianificato. Anche in Ruanda avvenne così. E su questo dobbiamo sempre vigilare”.

E noi tutti riflettere e sperare, visto ciò che succede ancora, anche a breve distanza da casa nostra. La malvagità umana non ha limite, così come spesso il delirio di onnipotenza di chi è al governo. Impegniamoci tutti a educare al bene il cuore delle giovani generazioni, a volte fragili e superficiali, affinché la parola “ pace” non sia solo una lontana chimera ma una possibile e concreta realtà. Ben ricordando che anche la persona peggiore, che ha il cuore indurito e ha perso perciò la somiglianza con Dio, potrebbe rendersi ancora capace di distinguere il bene dal male e far cambiare rotta ai suoi itinerari di odio e di devastazione. Ogni guerra è pur sempre “inutile strage”, come sottolineava Papa Benedetto XV oltre cent’anni fa.

A proposito di ricordi, proprio in questi giorni, riordinando una cartelletta con ritagli di giornale, foto eccetera del lontano 1994, ho ritrovato con piacere un articolo a firma di Luisa Negri confezionato dopo un’intervista che mi fece pochi giorni dopo il rientro dalla missione ugando-ruandese. Fu pubblicato sulla pagina della Cultura della Prealpina in data 7 maggio 1994. Alla luce di tutto ciò che avviene ancora nel mondo, la narrazione che segue, con i suoi contenuti e i suoi riferimenti, rappresenta una testimonianza purtroppo attuale. Con i sentimenti di sincera gratitudine all’amica Luisa, allego l’articolo.

A colloquio con la pediatra Anna Maria Bottelli che con altri volontari ha contribuito a salvare la vita di 54 bambini

DA VARESE AL RUANDA, MISSIONE UMANITARIA

Il racconto di un’esperienza “unica e indimenticabile” e dell’incontro con quelle piccole creature “che hanno dimestichezza con il dolore”

Di esperienza alle spalle ne ha più d’una. Laureatasi nel ’73 a Pavia con il professor Giuseppe Roberto Burgio, e successivamente specializzata sempre con lui in clinica pediatrica, ha iniziato a darsi da fare in reparto dal ’75. E accanto all’attività ospedaliera e alla libera professione, svolge funzioni di consulenza pediatrica per il CPO, il Centro di Pronta Ospitalità, la struttura pubblica in cui vengono accolti bambini da zero a tre anni bisognosi di un ricovero urgente per ragioni socio-familiari.

La “chiamata”, quella che mai avrebbe messo in conto nella sua vita, è arrivata all’improvviso lunedì 25 aprile poco prima delle 20, attraverso la voce di Viviana Garghentino, ispettrice della CRI: serviva ancora un pediatra, destinazione Ruanda, sull’aereo dei Paolini in missione di salvataggio per 54 bambini di età diverse. “Avevo la valigia pronta per una breve vacanza. Ci ho pensato appena un attimo, ho capito che la meta a questo punto doveva essere un’altra e ho detto subito sì. Se stai a riflettere su quello che può succedere, se ti fai venire paure o dubbi, in questi casi non cominci neppure “.

E ora Anna Maria Bottelli, pediatra del nosocomio varesino, protagonista assieme ad altri concittadini di un’esperienza unica e indimenticabile, ha voglia di raccontare. Degli orfanotrofi di Amelia Barberi e della missione varesina organizzata dalla CRI partita martedì 26 aprile, si è tanto detto, lo sa bene. Ma crede fermamente che sia giusto parlarne ancora: “Per non lasciare circoscritta a se stessa un’esperienza che non deve rimanere momento limitato di una vita, ma può diventare spunto di riflessione, di confronto”. Le piacerebbe riparlarne subito assieme a coloro che su quell’aereo hanno vissuto trentasei ore di vita indimenticabili. Lei pensa con David Rosage che le persone sono come i libri: “Ogni esperienza aggiunge una nuova pagina a ciò che siamo”. E che il Signore registra nel suo libro ogni nostra opera: “Tu hai contato le mie peregrinazioni, le mie lacrime sono racchiuse nella tua ampolla: non stanno forse già nel tuo libro? (Sal 56,9)”.

Su una scrivania dello studio popolato di pupazzi e cartelloni colorati, dove visita i piccoli pazienti, ci sono giornali, libri, appunti fitti di riflessioni e le tante fotografie scattate all’aeroporto e sull’aereo. Sorride, gli occhi verdi e vivaci brillano di commozione mentre mi mostra visi paffuti dagli sguardi grandi (“ ma sotto gli abiti, mentre li visitavamo, non ci abbiamo messo molto a scoprire gambe troppo magre e pancini smisuratamente gonfi per la denutrizione”), piccolissimi colti nell’attimo di una smorfia o col “bombo” – parola universale – tra le mani.

Si sofferma sull’immagine di una compagna di viaggio già grandicella, fasciata al viso perché colpita dal machete: “È lei che mi ha più impressionato. Non ne so il nome – quelli non li avevamo, non tutti almeno, i bambini li abbiamo dovuti addirittura numerare – e neppure l’età. Apparentemente poteva avere tra i dieci e i dodici anni. Era vicino a me sull’aereo. Le ho chiesto subito se voleva bere o mangiare, se le serviva qualcosa. Rispondeva sempre no. Continuava a guardarmi con gli occhi grandi e tristi. Aveva ancora paura e custodiva dei segreti, purtroppo. Quei segreti che i bambini celano in un silenzio ‘premeditato’ quando hanno alle spalle inquietanti realtà. Quei segreti che significano voglia di negare e voglia di dimenticare, di liberarsi di una parte di sé che non possono né confessare né affrontare. Poi piano piano ha acquistato fiducia in me, quando l’aereo è partito ho sentito la stretta della sua mano nella mia. E subito mi ha fatto capire che aveva male al viso. Si è lasciata medicare senza un lamento”.

Racconta Anna Maria Bottelli come la sopportazione della sofferenza fisica fosse comune ai piccoli ruandesi: “Si sono fatti disinfettare e medicare senza lamentarsi eccessivamente. Forse anche per la stanchezza, per la debolezza. Ma non solo per quello certamente. Hanno dimostrato grande forza di fronte al dolore e alla sofferenza, molto più dei bambini che vedo tutti i giorni. Hanno una evidente dimestichezza col dolore – ma anche con la morte, perché sono tutti orfani – che non passa inosservata. E che non può non far riflettere sul significato del dolore nell’esistenza di un bambino, un interrogativo questo col quale mi confronto da sempre nella professione e nella vita”.

Non azzardo domande per ora, le domande in certi momenti rischiano di essere stupide. E lei torna all’inizio, al momento dell’impatto, a quel mercoledì all’aeroporto di Entebbe, quando si cominciava a disperare che i bambini arrivassero sani e salvi dopo un lungo e avventuroso viaggio sul gippone di mamma Amelia: “ Finalmente li abbiamo visti, i piccoli distesi sui materassini, i più grandicelli in piedi, attoniti, con gli sguardi tristi. È stato un momento emozionante, di silenzio e di commozione per tutti noi”. La realtà di quella scena così vera, le è parsa come sospesa per un attimo in un che di irreale: “ Ho notato le tinte vivaci degli abiti – gialli, blu, viola, fucsia, verdi – i visetti scuri, i colori forti del mondo intorno, che terra bellissima. E quelle minuscole vite allineate come tante figurine in un ordine strano, che ci stavano osservando con apprensione. Porto ancora dentro di me l’immagine, simile a un quadro dalle proporzioni ridotte, una miniatura indimenticabile

Li hanno visitati e medicati, accuditi e coccolati. Poi sull’aereo le prime diagnosi: dissenterie, bronchiti e bronchioliti, e quasi tutti erano assetati e astenici. Alcuni feriti. Altri febbricitanti. Per i più piccoli, i poppanti, è bastato qualche biberon di latte a placare singhiozzi flebili. Per pianti più robusti è occorso un nutrimento in un tempo maggiore. Poi è esploso senza veli, anche da parte degli uomini, quello che Bottelli chiama “ il maternage”: “ Ho potuto cogliere l’immagine moderna dell’essere padre, nella tenerezza dei volontari maschi”. Da ultimo è calato il silenzio. E l’aereo ha custodito il sonno dei piccoli – ha scritto un giornalista della spedizione – come una grande culla volante, fino all’arrivo alle 3,35 di giovedì all’aeroporto di Orio al Serio.

Ora mi posso permettere una domanda. Le chiedo se non si siano lasciati mai prendere in quelle ore dalla paura di non farcela, di non arrivare a tutti, in trenta persone per cinquantaquattro piccoli pazienti in quelle condizioni. “Mai, eravamo uniti tra noi, sentivamo la solidarietà. E personalmente non ho avuto timore di non capirmi coi bambini. Il bambino comunica in modo empatico. Lo so bene quando visito nella mia attività di ogni giorno i lattanti, i bambini che amo di più: comunicano perfettamente con le labbra, con gli occhi, con le mani. Ricordo una bella poesia di Martin Gutl dove si dice che i bambini ‘sono occhi e mani’. Ecco noi guardavamo i loro occhi, le loro mani muoversi e sapevamo immediatamente che cosa gli occorreva”.

Ci tiene a sottolineare di essere assolutamente convinta che i bambini ruandesi debbano tornare tra le loro genti. “Hanno bisogno del loro continente, della loro lingua, dei profumi della loro terra, intensi come i colori che ho visto laggiù. Sarà bene riportarli al più presto nella realtà a cui appartengono e che gli appartiene. In Ruanda o in Uganda sarà possibile, chissà, tra non molto tempo, restituirli a un’esistenza normale, senza violenza”.

La chiacchierata con Anna Maria Bottelli – siamo vicini a una festa, quella della Mamma, che troppe volte assume i contorni della retorica – voleva partire dal discorso sulla maternità, dal significato di una parola bella, ma spesso mal interpretata. Le chiedo quanto sia cambiata in lei l’idea sulla maternità, dall’inizio dell’attività di pediatra a oggi: “ L’idea più scontata di partenza può essere quella della maternità intesa come istinto materno, che ogni donna crede di possedere in sé. Ma la realtà ti dimostra poi che non è sempre vero. L’abbandono, l’anaffettività materna come si spiegherebbero allora? Con lo studio, l’esperienza, l’approfondimento, arrivi a capire che il vero significato della parola sta nel rispetto del bambino come individuo. In questo senso la maternità non è solo prerogativa della donna che ha messo al mondo il figlio ma può appartenere anche ad altre persone che gli sono vicine. Dice Korczak che un bambino è come una pergamena ricoperta di minuti geroglifici, dei quali riuscirai a decifrare solo una parte, alcuni ti capiterà di cancellarli del tutto, altri di cancellarli un poco e riempirli con i tuoi contenuti…Ripeto, è il rispetto della personalità del bambino che decide il valore della maternità”.

Quanto è cambiata oggi l’idea della maternità? E sono più brave le madri di oggi o erano meglio le madri di una volta? “La maternità è oggi vissuta come una responsabilità, nella consapevolezza piena dei doveri che l’essere madre comporta. Il calo demografico certamente dipende anche da questo, oltre che da ragioni di carattere strettamente economico. Diciamo che la mamma moderna ha la fortuna di essere molto informata, ma ciò può essere anche maggior fonte di preoccupazione. Così capita spesso che abbia paura di sbagliare se non esegue alla lettera quello che si sente dire o che legge, facendosi affliggere da veri e propri sensi di colpa. Il rischio più grosso è quello di tentare di adattare il figlio alle regole del manuale, anziché fare l’operazione inversa. Vale la pena, secondo me, di recuperare l’antico buon senso delle nostre mamme, che di manuali non facevano grande uso ma si affidavano senza timore al loro intuito e ai saggi consigli delle nonne”.

È soddisfatta della scelta di questa professione? “ Le difficoltà ci sono, inutile negarlo. Ho voluto essere pediatra da sempre, non so nemmeno io il perché. Forse la ragione vera è che mi attrae il mondo complesso e profondo, il mistero – il mistero dell’uomo – che è già racchiuso nel bambino. Un essere più piccolo di noi ma di uguale grandezza”.

Le foto della galleria sono state pubblicate nell’articolo sopra riportato dalla Prealpina del 7 maggio 1994

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