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Il Mohicano

IN NOME DELLA COSA

ROCCO CORDI' - 15/11/2019

Occhetto alla Bolognina

Occhetto alla Bolognina

Appena tre giorni dopo la “caduta” del muro di Berlino Achille Occhetto, Segretario nazionale del PCI, annuncia alla Bolognina che è necessario «non continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». Una frase criptica che i giornalisti cercano di capire ponendo la domanda fatidica: ciò che ha detto lascia presagire che il PCI cambierà anche il nome? Occhetto risponde “Lascia presagire tutto”. Il nome di cui si parlava non era certo un dato anagrafico. Riguardava il PCI, i comunisti italiani, i protagonisti cioè di settant’anni di storia nazionale e non solo. Quel nome per milioni di italiani, iscritti o elettori che fossero, aveva un significato profondo. Indicava un soggetto interprete delle domande e dei bisogni popolari, portatore di un progetto di cambiamento della società. Un soggetto antagonista, protagonista della Resistenza, della nascita della Repubblica, della elaborazione della Costituzione. Non a caso la nostra Carta fondamentale porta la firma di un comunista, Umberto Terracini. Un partito la cui credibilità, il radicamento sociale e il consenso di cui godeva (fino a conquistare 13 milioni di voti su 40 milioni di elettori) erano strettamente correlati alla sua capacità di “aderire a tutte le pieghe della società italiana”, di essere cioè partito di massa.

Il suo nome non era per niente assimilabile a quello di altri. Né, tantomeno, poteva essere confuso con quei partiti che quel nome avevano offuscato e sfregiato nei paesi del cosiddetto “socialismo reale. L’idea di cambiare nome avrebbe messo in discussione tutto questo. Achille Occhetto avrebbe dovuto saperlo. Lo sapeva, certo. Tuttavia decide di bruciare le tappe lasciando così scoperto il tallone, come l’eroe omerico detto piè veloce.

Io, Segretario Provinciale del PCI, appresi dai giornali che a Bologna c’era stata una svolta. Così pure tutto il gruppo dirigente, compresi i membri più autorevoli della direzione nazionale. Questo contribuì a rendere ancora più aspro e drammatico il confronto che si sarebbe protratto per ben quindici mesi.

La fretta è sempre cattiva consigliera. Lo è ancora di più quando ti proponi di cambiare qualcosa che non è un oggetto, ma un corpo vivo, una comunità formata da centinaia di migliaia di persone che, dalla sezione più grande alla cellula più piccola, sono abituate a discutere su tutto, dalle questioni locali a quelle internazionali. Se poi la motivazione di fondo per giustificare la svolta diventa la caduta del muro di Berlino, mentre i “contenuti” appaiono piuttosto sfuggenti e confusi, allora anche il miglior presagio può mutarsi in sventura. E che si trattasse di un “pretesto” lo dimostra il fatto che soltanto sei mesi prima, a marzo, si era svolto il XVIII Congresso in cui il “nuovo corso” enunciato da Occhetto aveva ben altre basi e io l’avevo sostenuto senza dubbi di sorta. Tra marzo e novembre c’erano pure state le elezioni europee e anche allora alcuni avevano sollevato la questione del nome suscitando la dura reazione di Giancarlo Pajetta, da me raccontata in un altro articolo.

Un mese e mezzo dopo la Bolognina è convocato a Roma il Comitato Centrale (20/24 novembre). Intervengo esprimendo tutte le mie preoccupazioni: “Ho apprezzato molto il coraggio con cui il compagno Occhetto ha posto la questione del nostro rinnovamento, ma temo che la fretta possa bruciare il valore storico dell’operazione” e concludo auspicando l’avvio di un percorso diverso: “Costringere il processo entro tappe forzate e “anticipare” ora l’approdo costituisce una forzatura che offusca il valore del disegno delineato nella relazione”.

Molti altri indicarono percorsi e contenuti diversi, ma ormai il dado era tratto. Il CC si concluse con 219 sì, 73 no, 43 astenuti (io ero tra questi). Però non c’era più tempo per le incertezze. Con la convocazione del XIX Congresso, che si sarebbe svolto pochi mesi dopo (Bologna 7- 11 marzo 1990) bisognava decidere in fretta. Al ritorno da Roma mi recai subito a Villa Recalcati dove in una sala stracolma di compagni (tantissimi altri costretti all’esterno) informai del clima e delle conclusioni del CC, esposi anche le mie incertezze e le mie preoccupazioni. Seguì un dibattito teso, tormentato, appassionato, in cui ancora si avvertiva, pur nella diversità di opinioni, quel senso della comune appartenenza che induceva al rispetto reciproco. Quel clima però sarebbe durato ancora per poco. Le modalità del percorso congressuale e le tre mozioni contrapposte avrebbero rotto l’incantesimo dell’unità innanzitutto. Un principio che aveva consentito al PCI di diventare quello che era si ruppe improvvisamente assumendo la forma di un correntismo esasperato in cui la “necessità” di affermare la supremazia di una tesi sull’altra impediva il confronto sereno e costruttivo.

Mi schierai a sostegno della seconda mozione Per un vero rinnovamento del PCI e della sinistra sottoscritta, tra gli altri, da Natta, Ingrao, Tortorella. Pochi giorni dopo, il 19 dicembre, presentai le mie dimissioni alla Segreteria provinciale “per sentirmi libero dai condizionamenti che la carica di Segretario impone e per condurre la mia battaglia politica a viso aperto e senza infingimenti, così come la situazione richiede”. Mi chiesero di ripensarci, di trascorrere serenamente le festività natalizie. Ma anche per me il dado era ormai tratto. Avvertivo che nulla sarebbe stato più come prima. Perciò il 27 dicembre in Segreteria dopo aver ringraziato i compagni per la fiducia confermai le dimissioni, formalizzandole, subito dopo, in una lettera agli organismi dirigenti provinciali, regionali e nazionali. Il 9 gennaio il Comitato Federale respinse le mie dimissioni sostenendo che non vi era alcuna incompatibilità e invitandomi a continuare fino allo svolgimento del Congresso. Accettai solo per disciplina. Le mie dimissioni infatti non erano state motivate da presunte incompatibilità formali, ma da un interrogativo ben più sostanziale: “Dato che dobbiamo scegliere in una sorta di assurdo referendum e batterci con tutte le nostre forze tra schieramenti contrapposti, che Segretario sarei e di chi?” Lo svolgimento dei Congressi confermò le mie preoccupazioni convincendomi ancora di più nel proposito di dimettermi che confermai anche nella mia ultima Relazione da Segretario (Congresso provinciale 23/25 febbraio), con queste parole: “Sono convinto, e non da ora, che non esistono segretari buoni per tutte le stagioni. Pertanto quando giunge il momento, ed oggi siamo in questa situazione, è giusto e doveroso lasciare il posto a chi condivide le scelte compiute dalla maggioranza degli iscritti.

La mozione di Occhetto ottenne il 62,4%, quella sostenuta da me il 33,6%, la terza di Cossutta il 4%. La morte del PCI era decretata anche se l’epitaffio venne ufficialmente scritto dal successivo Congresso (Rimini 31gennaio/3 febbraio 1991) che sancì la nascita del PDS.

Trent’anni dopo siamo ancora qui ad aspettare le magnifiche sorti e progressive annunciate da una svolta finita come è finita. Perché il problema non era il nome ma la “cosa”. E se oggi dicendo a qualcuno “piccì” quello pensa che ti stai riferendo al computer, ci sarà pure qualche ragione.

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