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Società

PORTA IN FACCIA

LUISA NEGRI - 17/01/2020

federico-vespaPer il suo libro, il primo, scritto tra un bourbon e l’altro, da stagione a stagione, da notte a notte, ha scelto un titolo forte. Per strapparsi l’anima davanti a tutti, e farne omaggio a qualcuno, come un gatto che depone la preda uccisa sullo zerbino di casa, dichiarandosi soddisfatto del proprio coraggio di cacciatore e guerriero, e del dono fatto a sé stesso e alla famiglia che ama.

Ma anche e soprattutto per lanciare un messaggio ai suoi coetanei: fermatevi un attimo a riflettere, guardatevi attorno e dentro di voi, cercate un senso a quel vivere di superficie, di parole e ancora parole fatte di niente, di scivolamenti verbali sul pattinaggio del web, dove si schizza via senza neppure incontrarsi, ma il rischio di caderci male può portare a dolori e fratture difficili da guarire.

C’ è rabbia, affetto, testardaggine, dubbio – ma anche voglia di capire dove va e soprattutto andrà la vita della generazione nata negli anni Settanta – nel libro di Federico Vespa. Che vanta un curriculum di apprezzato giornalista, soprattutto radiofonico e televisivo, e di meritorio direttore di un giornale di volontariato scritto da detenuti. Per sua fortuna – ma anche purtroppo, come confessa a chiare lettere – è anche figlio d’arte. Ed è proprio lui l’autore di “L’anima del maiale. Il male oscuro della mia generazione” (pp.155, Piemme), autoritratto ‘senza reticenze e senza imbarazzi osservato sullo sfondo del disagio esistenziale di un’intera generazione, ingannata dai privilegi che avrebbero dovuto renderla felice’.

Federico è il primogenito del celebre Bruno, giornalista abruzzese, che non ha mai mancato un incontro importante con la cronaca giornalistica televisiva, nascendo, crescendo e invecchiando – con immutata dedizione – alla corte di mamma Rai e tra le pareti domestiche delle case degli italiani, suoi affezionati telespettatori.

Federico ama la sua famiglia, stima e invidia la solida coppia genitoriale che ha portato già fino ai quarantacinque anni di unione un matrimonio vissuto nel segno del sostegno reciproco, familiare e professionale.

Momenti bui hanno però accompagnato quel cammino.

La scorta inflitta a Federico per tutelare dapprima la madre magistrato, impegnata in delicati procedimenti giudiziari legati agli Anni di piombo e inserita nella black list dei brigatisti, poi anche il padre in procinto di diventare direttore Rai, è uno dei tanti prezzi pagato dall’ autore a quel privilegio di figlio nato bene, come si evince dal racconto della sua non facile adolescenza e giovinezza.

Venuto al mondo nel ‘ 79, un fratello che lui ama e invidia fin dalla culla per mitezza e serenità, contrapposta alla personale ribellione di adolescente annoiato e grassottello, Federico subisce, per timidezza e senso di inferiorità, le allusioni dei compagni di scuola alla sua posizione di enfant gaté. Si sente come uno dei “porcellini ingrassati”, citati dall’amico prof di liceo a indicare i suoi privilegiati allievi, figli di una borghesia romana ricca e professionalmente invidiata.

Soffre anche l’impegno lavorativo dei genitori, le lunghe ore trascorse in solitudine, dapprima con le innumerevoli baby sitter messe in fuga dalla sua infantile barbarie, poi nei refettori anonimi degli istituti scolastici, la schiscetta personale portata da casa che gli trasmette un senso di abbandono domestico.

Federico alimenta così, giorno dopo giorno, una negativa autostima. Si vede goffo, brutto, invidia la libertà dei sorridenti giovani in bomber di anni andati, sicuri di sé e gratificati dalle loro certezze.

Il mostro scuro della depressione s’affaccia in lui piano piano, fino a deflagrare nell’ esplosione di vere e proprie crisi di panico, abuso di alcool e qualche altro cedimento di troppo.

La rincorsa a diversi strizzacervelli, consultati da sempre, e parecchi pseudo amori con ragazze che non si sente di scegliere come stabili compagne di vita, sono l’incerta realtà di una gioventù vissuta con fatica e sofferenza. Solo ora l’autore sente, e può dichiarare nel libro, e grazie anche al libro, di avere prese le giuste distanze tra la sua vita e la depressione.

C’è voluto insomma tutto il coraggio di raccontarsi, di sbattere quel mostro in prima pagina, quel mostro caparbio che mai lo lasciava vivere in serenità, e se gli concedeva un attimo di respiro lo tornava a cercare poi, per urlargli tra testa e cuore: sono ancora qui e non ti mollerò mai.

Federico lo ha annientato avvelenandolo nella sua stessa saliva acida – quella che si sentiva salire in gola, in un nodo soffocante, quando il sudore freddo gli bloccava la schiena e paralizzava le braccia, lasciandolo vinto e impaurito. Lui lo ha allontanato con l’aiuto dei farmaci e dei medici.

Ma lo ha combattuto soprattutto con l’arma della parola scritta, nero su bianco, dove si è confessato e consegnato ai lettori, e anche con il coraggio della lealtà che sa giudicare il vero, tra giustizia e ingiustizia. Con le stesse armi insomma che conosceva, perché entrambe a lui familiari.

E allora, avrebbe potuto concludere Federico, qualcuno potrà buttarmi in faccia ora più che mai la sua invidia, abbozzare con parole rozze basse allusioni di un altra strada percorsa in discesa, ma sto dimostrando che la stoffa c’è, lo dimostro da tempo, e che buon sangue non mente.

Ma non è questo che gli importa di dire. Il risultato che conta per lui è la libertà della sua testa e del suo cuore, nella disincantata, lucida analisi di se stesso e di una generazione che ha avuto troppa paura di farsi domande, di cercare di capire, che non ha saputo dire dei no come altre generazioni avevano saputo fare prima.

Il rimpianto di Federico, adolescente e giovane uomo insoddisfatto, ora finalmente adulto sereno e consapevole, insegue con nostalgia il passato nella macchina del tempo.

“Mi manca vivere da adulto il 1979. Avrei fatto una vita più lenta, con o senza figli, sarei sceso in piazza per difendere dei diritti e delle idee, e il mio Facebook sarebbe stato davvero un album fotografico, prima in bianco e nero, poi a colori”.

In quell’ album dei ricordi, o comunque lo si voglia oggi chiamare, c’è però ancora spazio. Per continuare a infilarci, da tradizione, le belle foto di generazioni a confronto, come si è sempre fatto. Dove tutti si mettono in posa, sorridono e cercano di mostrare il meglio di sé.

Nessuno, sfogliandolo poi nel tempo con la giusta serenità, penserebbe più che tra figli e padri, dietro i sorrisi, si rincorrevano le stesse domande e provocazioni, gli stessi dubbi, tramandati da sempre, di generazione in generazione. Su chi si era comportato meglio o peggio, su chi aveva sbagliato e chi aveva vinto. Su chi aveva amato. O invece non era riuscito a dimostrarlo.

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