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Opinioni

PERCEZIONE AZZERATA

LIVIO GHIRINGHELLI - 17/04/2020

La peste di Atene del 430 a.C. narrata da Tucidide

La peste di Atene del 430 a.C. narrata da Tucidide

Avere coscienza delle parole, con cui interpretiamo il mondo, ci permette di collocarci in una giusta distanza al fine di aprire un rapporto più vero con la realtà. Bisogna assumere un atteggiamento critico verso le categorie che utilizziamo al fine di pervenire a una verità senza virgolette e in quanto tali falsificabili, allontanarsi da pregiudizi e preconcetti. Una giusta distanza ci consente di non aprire uno spazio colmo di falsità e demagogia. Se eccessiva, può determinare una insensibilità morale, mentre un opportuno straniamento, per così dire filologico, arma privilegiata d’analisi negli studi storici, ci consente di evitare questo pericolo. Non si tratta di un fine, bensì di un mezzo. Così non ci si metterebbe nella convinzione di vincolare ad esempio gli epidemiologi agli schemi di interpretazione del passato, a prescindere dal percorso d’obbligo per ogni uomo di scienza, specie in casi di assoluta e prorompente novità: prendere in esame tutti gli elementi a disposizione, formulare ipotesi, confrontarle, discuterle, verificarne i risultati al fine della validazione, tradurli sul piano operativo senza attese miracolistiche o soluzioni di mera, fallace propaganda.

Il Vangelo gnostico di Filippo ammonisce: gli uomini si fabbricano gli dei e venerano le loro creazioni. Ben definisce invece la nostra tragica condizione il giudizio dato da Tucidide sulla peste di Atene: dissoluzione dei legami sociali, caduta del tasso di umanità. Alla cui luce più tardi Hobbes formula l’idea di una guerra primordiale di tutti contro tutti, onde la necessità del Leviatano di legittimare l’istituzione dello Stato (col suo esercizio di controllo capillare, massiccio della popolazione). Il suo potere pervasivo e schiacciante verrebbe in soccorso a una natura guasta e vulnerabile, cui è dato di assistere. La peste nera del 1300 ha avuto un impatto devastante sulla società (arte, religione, processi economici), aprendo alla formazione dello Stato moderno per il bisogno di una autorità centrale. E ci si chiede però: le democrazie sono in grado di prendere le misure necessarie? Si devono sacrificare valori fondamentali come quello della libertà per adottare misure più efficaci?

È chiaro che una popolazione mondiale, che sfiora gli otto miliardi di persone, causa la globalizzazione, una enorme urbanizzazione, una società congestionata e collegata da grandi reti di commercio, che dispone di rapidissimi mezzi di trasporto, con ineguaglianze interne paurose, sentimenti anticomunitari galoppanti, migrazioni di massa e soprattutto con un disastro ecologico incombente, può solo avviarsi verso crisi planetarie difficilmente governabili. Già uno studio dell’OMS 2018/2019 presentava un mondo a rischio di preparazione in modo assoluto. Così dal 1997 ecco il susseguirsi di influenza aviaria, SARS, Ebola. C’è un ripetersi di eventi estremi di intensità crescente, tali da determinare una crisi di sistema.

E i virus non rispettano classe sociale, nazionalità, razza. Oggi tra l’altro si azzera la percezione di tutte le altre emergenze nel mondo in un clima di sospensione e di paura, in cui si ha la sensazione di avere smarrito tutti i punti di riferimento, la diversità è sentita come minaccia. Si vocifera senza prove attendibili di una relazione univoca tra una malattia epidemica con il tipo di strutture politiche, che ne vengono rafforzate o indebolite. Ne può nascere un incentivo o a una repressione o ad una rivoluzione sociale. Allarmano ondate di xenofobia o nazionalismo; le epidemie possono accrescere il pregiudizio contro i poveri (v. la Parigi del 1871). Si corre a incolpare qualcuno, specialmente gli asiatici (Trump); sono diffuse le ideologie suprematiste, patriarcali, d’oppressione di genere. Individualismo, neoliberismo, antropocentrismo deviato ancora non sono obsolescenti.

Intanto il blocco degli spostamenti risulta una misura utile, ma parziale; il distanziamento sociale l’unico serio antidoto al momento. L’accumulo di notizie e informazioni aggrovigliate non ci libera dall’inquietudine, scandalizza la vera e propria ecatombe che ha afflitto ed affligge le residenze per anziani, abbandonate a se stesse e si accentua una tensione generazionale boomer-remover, anche se l’età delle vittime del coronavirus tende ad abbassarsi. Sta dinanzi ai nostri occhi invece il caso invidiabile della Corea del Sud per la preparazione e la capacità di praticare test di massa, per l’isolamento dei positivi e la tracciabilità dei loro contatti.

È crollata la nostra illusione di poter dominare il mondo: la nostra conoscenza è sempre parziale, frustrante. È necessario acquisire la convinzione d’essere tutti sulla stessa barca, della fragilità umana, bisogna riscoprire la qualità etica del legame che ci unisce, avere una visione condivisa del lavoro, nutrire una fiducia fondamentale nei confronti della vita, perché la speranza è il nucleo dell’annuncio pasquale. La mentalità della ricostruzione deve essere diversa coll’inizio di una nuova storia. Ecco il fascino di quanti già in questa crisi si distinguono per una professionalità che trascende i dispositivi contrattuali, per la presenza preziosa e larga del volontariato, della solidalità territoriale, di base. Ecco al contempo il valore di una preghiera che può levarsi in forme intime, personali, a prescindere da riti purtroppo impraticabili e comunque non individualistica.

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