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Attualità

IL TRENINO MÄRKLIN

VALERIO CRUGNOLA - 24/12/2020

treninoNegli anni ’50 essere bambini a Natale era bellissimo. Non so dire se fosse il momento storico o la mia età. Probabilmente entrambi. Anche per un bambino il dopoguerra era in fermento. Il mondo era vivibile, non imbruttito come ora. La vita era austera, ma c’erano aspettative che anche i bambini e i ragazzi percepivano. E ho avuto un’infanzia felice. Ma da quando, nel 1966, ho trascorso le feste lontano dalla famiglia, il periodo natalizio mi è parso scontato, prescritto, a volte un cartellino da timbrare, un dovere da sbrigare o da evitare. Infanzia e adolescenza sono un viaggio di scoperta; il già noto si ritualizza e inaridisce.

Il giorno in sé deludeva un po’, a parte l’immancabile Monello di Chaplin riversato su una pellicola adatta al modesto proiettore di mia nonna. Il bello era l’attesa, la frenesia che l’accompagnava e gli speciali piaceri del dopo. Il Natale non arrivava troppo presto, come ora, e nemmeno troppo tardi, come accade agli adulti distratti e un po’ estranei ai riti insipidi del consumo. Non era una coazione ossessiva a favore dei commercianti. L’attesa non si sciupava anticipatamente e nemmeno si diluiva troppo. Il periodo natalizio era semplicemente più lento, più lungo e intenso di altri. In quel ristretto arco di tempo tutti erano indaffarati nei preparativi: genitori, nonni, fratelli, parenti e bambini. Poi gli adulti tornavano alle occupazioni ordinarie, ma per noi veniva la vacanza. Eravamo il centro dell’attenzione, ma anche più periferici, dunque più liberi. Occupati più intensamente, ci potevamo isolare nei giochi e nei nostri impegni sociali.

Tutto cominciava con l’Immacolata. Non saprei dire se il periodo liturgico dell’Avvento iniziasse prima. So che la discesa verso il Natale coincideva con quell’anticipo di festività. Il 7 dicembre la maestra, devota a Padre Pio oltre ogni limite di saturazione, disponeva una Madonnina su una mensola: dal rientro il 9 fino al 22, ogni mattina prima della pausa (si andava a scuola dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 16 tranne il giovedì e il sabato), il vincitore del gioco del silenzio (una pratica ruffianesca) avrebbe avuto l’onore di accendere la lucina che albergava nel ventre della statuina, con allusioni che solo un adulto coglie.

Dal 9 le cose diventavano più dinamiche e culminavano la notte della vigilia. Si scrivevano cartoline e biglietti di auguri, anche a corrispondenti lontani: un nome, una foto scambiata, le prime parole in inglese. I regali seriali per mio padre arrivavano a casa, e spesso si riciclavano: le bottiglie di spumante, il torrone, i datteri, le agende, le agendine in pelle con matita e gli immancabili calendari.

Mia madre amministrava tutto, ma prima mio padre mostrava, contando le banconote a famiglia riunita, il budget disponibile.

Si usciva molto più spesso. Era per il cappotto nuovo dal sarto o nei negozi di abbigliamento nel centro, poco adatti ai bambini (bisognava controllare gli orli per far fronte alla crescita, anche la classe media doveva farci caso, ogni spesa andava ponderata); per lo spesone alla drogheria Bianchi, i dolciumi da Ghezzi, i cibi inusuali da Battaini, i tortellini e il miele da Cantù. L’albero e il vischio si prendevano al mercato; i libri dall’indimenticabile Signora Elsa (mi attendevano, regolarmente, il Calendario Atlante De Agostini, una lettura appassionante, le fiabe delle Strenne Einaudi e i classici racconti d’avventura), le penne e i pennini in una cartoleria specializzata in corso Matteotti, tutta rivestita in legno pregiato, le matite da Villa, i giocattoli da Vassalli e Verga (andavo pazzo per le costruzioni, chiuse in eleganti scatole che mi sembravano pozzi senza fondo). Il numero speciale natalizio di Topolino mi metteva una certa trepidazione, arrivava di pomeriggio e passavo impaziente da quella persona straordinaria che è stato Paolo Vescovi; tutti i personaggi erano pervasi di spirito natalizio, persino i Bassotti e Gambadilegno, e mi sentivo inondato da quella melassa di bontà.

Con l’approssimarsi della vigilia si andava in visita ai parenti non stretti. Venivano in casa gli amici dei genitori, dei fratelli e i miei. I genitori e le nonne si spartivano i pranzi e le cene tra le varie feste e le domeniche, ma siccome mia madre cucinava benissimo i due pasti di Natale si celebravano sempre da noi.

E c’era l’attesa dei regali. Impacchettati e nascosti, venivano deposti sotto l’albero prima della cena della vigilia. Tutti sapevamo che non erano né Gesù Bambino né Babbo Natale a portarli: ma il mito aveva una sua bellezza, e lo si prendeva sul serio anche se non era creduto. Si cominciava con le due letterine: a Gesù le buone intenzioni, con promesse di fioretti e di tanta obbediente bontà; a Babbo Natale i desiderata. Erano esercizi piuttosto stucchevoli, compilati per dovere; ma erano parte del gioco.

I regali non erano scontati, bisognava meritarseli, non c’era compravendita di affetti tra genitori e figli, e mio padre aveva posto dei limiti alla letterina dei desideri. Invidioso del trenino Märklin di un compagno di classe – il plastico occupava una stanza intera –, ne chiesi uno per me, ma molto più modesto: un anello simile a una pista di atletica con due diagonali, un secondo binario di transito e uno morto alla stazione. Mi fu proposto di risparmiare per un anno e di trovare degli sponsor tra i parenti; fui obbligato a capitolare. Il Natale successivo andai in un negozio in centro a comprare trasformatore, binari, scambi, semafori, locomotive con vagoni merci e un Orient Express con un locomotore delle ferrovie svizzere (nel 1955 eravamo andati in gita scolastica a Berna per il cinquantenario del Sempione). Fui molto felice, ma montai i binari soltanto una volta. Invitai il mio compagno ricco a giocare, ma mostrò di non divertirsi, e finì che giocammo ad altro. Non ho più rimontato la pista. I bambini sono volubili: contano il desiderio e la condivisione, non il possesso.

Le disuguaglianze scavavano distanze incolmabili se si compete sullo stesso terreno: in cambio, per divertirsi senza ostentazioni competitive bastava poco. I soldatini non mi piacevano: li prendevo nei pressi dell’ex cinema Gloria solo perché era un obbligo averne qualcuno da socializzare in guerre improbabili tra indiani e turchi, cowboy e crucchi, tende della Croce Rossa e legionari romani.

Il centro era più animato. Non c’erano bancarelle o capanne da mercatino. Un presepio era collocato nell’aiuola spartitraffico di piazza Monte Grappa. Un po’ più tardi comparve il pino, e il primo che sopravvisse è rimasto sino ad oggi. Gli zampognari percorrevano avanti e indietro i portici. Le persone si salutavano e per noi bambini era l’occasione per ricevere parole di adulazione e fare qualche amicizia, o, altrimenti, per annoiarsi a morte.

Il pomeriggio dell’antivigilia era speso per allestire l’albero. Gli era dedicata una posizione trionfale presso la finestra della sala da pranzo. Sotto, sulle cassette della frutta, si montava il presepio. Era una specie di scuola montessoriana con i materiali. Si raccoglieva il muschio nei boschi per simulare i prati, per i ruscelli c’era la carta stagnola, i sassolini bianchi tipo lettiera del gatto per i sentieri, il villaggio e le colline in cartapesta, la capanna in sughero sormontata dalla cometa di cartone, la carta del cielo stellato appiccicata alla parete e le statuine di ceramica, che la sera dell’Epifania si riponevano con cura. Mi divertivo a scombinare i personaggi e a inventare vicende alternative. Ero un ammirato affabulatore.

La lentezza del tempo consentiva di fissare ricordi. Dopo il giro di boa, tutto è corso via veloce e la festa ha perso significato. Anche il mondo, sul finire, perde significato. Ci si chiude e si scava nelle porzioni di passato che recano antiche sofferenze. Nessuna narrazione di sé tiene quanto basta per riavere l’intensità della gioia. I ricordi addolciscono e insieme fanno male. Ma osservare in silenzio chi cerca per sé libri natalizi per l’infanzia e al contrario di me sa fare regali un po’ ripaga.

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