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Cultura

FELICE LEVITÀ

DEDO ROSSI - 12/02/2021

gualtieroFaccio ancora oggi un’enorme fatica a parlare di lui. Ci eravamo conosciuti dai Salesiani. Poi tante cose insieme, il Liceo Cairoli, l’Università a Milano. Abbiamo girato per l’Europa insieme, dalla Jugoslavia alla Polonia, all’Ungheria, quando andare in quei posti costava meno che andare a Rimini. Al mercato di Sarajevo abbiamo acquistato verdure, che mangiava solo lui. A Hkvar avevamo conosciuto una ragazza di Grenoble che piaceva ad entrambi. Sapeva quattro parole di serbo-croato e le spendeva come se ne sapesse mille. Si arrabbiava per le formiche nella tenda. Si perdeva in malinconie e in allegrie complici. E mille altre cose più serie.

Parlo di Gualtiero Gualtieri. Tra chi sta leggendo ora, molti l’hanno conosciuto. E sanno come sono andate le cose. Non entro nei dettagli.

Faccio fatica a parlare di lui per come è andata la sua vita, quella di sua figlia, quella di sua moglie. Ne provo ancora un dolore vivo, nella carne. Sono stato suo testimone di nozze. Ho passato valanghe di ore a scambiare parole con lui. Eppure faccio fatica ancora a parlarne. Sono mesi che vorrei farlo, perché non se ne perda la memoria, perché i racconti dei suoi libri, le sue chiacchiere serali alla Radio Svizzera, i suoi pensieri insomma, possano in un certo modo proseguire.

Ho pensato allora di ricordarlo oggi riportando semplicemente un suo pezzo “leggero”, un suo vecchio articolo pubblicato dall’ “Inserto” di Varese Sport del 1983. Voglio ricordarlo allegro. E vorrei che chi sta leggendo lo potesse ricordare con un sorriso.

Ecco l’articolo scritto allora da Gualtiero: “Chi si ricorda più di Annibale Frossi”, era il titolo. Era un articolo ricco di ironia, nello stile che lo renderà poi famoso soprattutto nel Canton Ticino per i suoi pezzi notturni alla Radio della Svizzera Italiana: un articolo docile, delicato, allegro nel sapersi prendere in modo leggiadro. La vita e gli anni, allora, permettevano di farlo.

Mi piace ricordarlo così oggi, dicevo, su un campo di calcio di Saltrio. Non so fare di meglio.

“Chi si ricorda più di Annibale Frossi? Certo il suo nome è rimasto nella storia del calcio e di lui si legge che fu il cannoniere azzurro che portò al trionfo l’Italia nelle Olimpiadi di Berlino del ’36; che ebbe “acuto talento calcistico” e che “doveva restare famoso negli annali come uno dei pochi giocatori che si esibissero con un grosso paio di occhiali”. Queste scarne notizie su Frossi, completate dall’elenco dei goal segnati alle Olimpiadi era più o meno tutto quello che sapevo di lui vent’anni fa. E oggi non ne so di più. Però il fatto che Frossi portasse gli occhiali mi aiutò non poco a superare le prese in giro quando anche a me toccò di portarli, diventando così l’unico “quattr’occhi” che scendesse in campo vent’anni fa coi ragazzi del mio paese, nelle interminabili e scombinate partite che si giocavano al “campo sportivo”e durante le quali avevo cominciato a sognare una splendida carriera che rinnovasse i fasti dell’occhialuto cannoniere azzurro.

Una passionaccia, dunque, che il bisogno di occhiali non aveva spento, nata giocando prima in qualche prato intorno a casa e poi al “campo sportivo”, un vero campo di calcio, anche se roccioso e un po’ ondulato, alla periferia del paese. La domenica era riservato alla squadra “ufficiale” ma durante la settimana era il nostro regno. Ragazzi di ogni età si ritrovavano lì con ogni tempo. I più grandi erano i “capitani” e toccava loro “fare le squadre”. Sceglievano a turno i loro “uomini”, così che spesso le squadre cambiavano da un giorno all’altro. Non si contavano i tempi regolari: ci si fermava solo al calar del sole. Però, come i guerrieri antichi, potevamo chiedere una tregua, se il fiato ci mancava, e stenderci sull’erba a riposare. (…)

Il più facoltoso della squadra era “il” Lele, figlio di un barista. Giocava con la maglia del Milan (ognuno aveva la “tenuta” che poteva: chi la maglia della squadra preferita, chi anche solo la canottiera) ed era il proprietario del pallone. Non mancava mai. La sua assenza, in effetti, avrebbe determinato l’impossibilità del nostro gioco, che si fondava sull’esistenza del Lele e del suo Pallone. Intorno a queste due entità dalle insondabili valenze metafisiche, nascevano e crescevano anche i nostri sogni di gloria sportiva.

Oltre al Lele c’era soltanto il Loris che possedeva vere scarpe di calcio, quelle con i tacchetti (volgarmente: biroêu). Partecipava dunque, sia pure solo per il rivestimento esteriore delle estremità, di quel complesso di qualità che, unite, formavano la “Tennica”, molto apprezzata degli esperti da bar dello sport di ogni paese d’Italia. (…)

Col tempo il Lele ci guidò alla formazione di una squadra “alternativa” a quella ufficiale, che preferiva far venire i giocatori da fuori piuttosto che ingaggiare noi. Il Lele comprò anche due reti bellissime e costosissime da fissare ai pali “per regolarità”: gliele portava in spalla il Sergio in cambio di due sigarette e del posto in squadra. Cominciammo così a giocare con altre squadre “alternative” di paesi vicini e a organizzare sfide internazionali con paesi confinanti del Ticino. Sarà stato che l’orgoglio nazionale non è mai mancato agli Svizzeri da Guglielmo Tell in poi, o sarà stato che l’arbitro lo fornivano sempre loro, sta di fatto che queste partite si risolvevano sempre in gravi ridimensionamenti di nostri sogni di gloria. Anzi, una di queste partite segnò addirittura la fine della carriera del Lele. Perdemmo 6-0 e gli Svizzeri trionfanti ci accompagnarono fuori dal loro sacro suolo a fischi e sassate. Nella concitazione della “ritirata”, il Lele abbandonò in mani elvetiche pallone e reti. Non si riprese più dal dispiacere, si dedicò poi soltanto al suo bar.

Io per cercare di dare una svolta decisiva alla mia carriera calcistica partii per la grande città in cerca di un “provino”. Incappai in un vice-vice-allenatore che appena mi vide con gli occhiali mi disse: “Ma chi credi di essere? Frossi, forse? O via gli occhiali o via tu”.

E io tornai in paese a discutere di calcio (ma quasi mai più di Frossi) nel bar del Lele.

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