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Opinioni

DI MALAFEDE E ILLUSIONE

VINCENZO CIARAFFA - 12/10/2012

Nel nostro Paese in questi giorni hanno preso a circolare due tipi di droga molto potenti perché sono di quelle che stravolgono la percezione del reale: la malafede e l’illusione. Della prima – la più costosa – sta facendo largo uso la classe politica che da un lato si propone come salvatrice di un’Italia a pezzi, dall’altro sta continuando allegramente a demolirla con comportamenti più che indecenti. Il secondo tipo di droga, l’illusione, è roba di quel popolo che, sotto sotto, spera ancora che qualche demiurgo come Renzi, Grillo o Berlusconi riesca in qualche maniera a trarlo fuori dalla m…. in cui si trova, senza capire che anche loro sono i frutti dell’albero fertilizzato da cotanto concime.

Seppure realizzato da soggetti più qualificati (che non si vedono all’orizzonte) questo è ciò che desidereremmo anche noi ma temiamo che quello nostro rimarrà un pio desiderio perché la crisi che ha investito il Paese, più che di natura politica ed economica, è quella di un’intera classe dirigente che, come il re della fiaba di Andersen, è ormai squallidamente nuda. La nudità di una classe di potere devastata dalla corruzione e che a pochi mesi dalle elezioni scopre l’onestà è impietosa, come il bikini di una donna anziana: il triangolino di stoffa della “virtù a tempo” non può celare i guasti di una vita, anzi li rende ancora più stridenti. La malattia perniciosa dalla quale è affetta la nostra classe dirigente è, purtroppo, di difficile cura perché essa incuba fin dalla sua “selezione” che, ahinoi, non avviene presso l’Ecole Nationale d’Administration come in Francia, ma dentro le segreterie dei partiti con un criterio che definire soltanto anti-meritocratico è come stuprare la meritocrazia. Eppure una Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione esiste anche nel nostro Paese ma nessun politico ha mai avvertito il bisogno di frequentarla e se ne comprende il perché.

Nel periodo d’imperio della Balena bianca, o Democrazia Cristiana, la selezione dei quadri della politica, della pubblica amministrazione, della finanza, degli ospedali, delle università, della televisione e perfino dei generali, avveniva all’incirca così: Andreotti, che era il politico più votato d’Italia, sceglieva proconsoli e protetti in ogni settore della vita del Paese stando attento, però, a che quelli non avessero capacità e ambizioni superiore a lui, anzi, più essi erano mediocri e più possibilità avevano di rifulgere nell’empireo andreottiano che non ammetteva competitori interni. Con il medesimo criterio proconsoli e protetti, a loro volta, sceglievano i propri capibastone in ogni provincia e/o settore così via fino ad arrivare ai galoppini veri e propri, quelli che manovravano sul terreno i gruppi di elettori. L’unica volta che un boiardo della DC, Fiorentino Sullo, non si attenne a questa regola aurea, il suo proconsole in Irpinia, Ciriaco de Mita, gli fece le scarpe!

Insomma la regola alla quale dovevano attenersi i componenti di questa piramide della mediocrità eretta a selezione era: “Tira la carretta, procura voti al capo e vola basso che, alla fine, verrà anche il tuo turno di sedere alla ricca tavola del potere”. Era fatale che, quando proconsoli, protetti, capibastone e galoppini elettorali avevano lo “scatto di carriera” e andavano a occupare, progressivamente, le più alte istituzioni dello Stato mancavano loro i requisiti etici, quelli tecnici e, soprattutto, il senso stesso dello Stato.

Quando apprendiamo che un chirurgo ha dimenticato la pinza emostatica nella pancia di un paziente, o quando vengono fuori le porcate del Fiorito-Batman di turno, o quando ci capita di avere a che fare con il funzionario statale irrimediabilmente ottuso, noi tutti dovremmo ricordare che il “come” quelle persone furono selezionate fu colpa anche della nostra acquiescenza. Ovviamente, una tale genia di classe dirigente non ha interesse che per le beghe interne del partito politico di riferimento nel quale deve continuare a lottare per la spartizione di altro potere e più ricche prebende: figuriamoci preoccuparsi del loro magistero istituzionale.

A tale proposito è molto istruttivo un aneddoto che raccontava quel fior di galantuomo (ve ne era qualcuno anche nella DC…) di Giuseppe Zamberletti e che, a sua volta, fu riportato da Celso Destefanis in un libriccino intitolato La guerra dei sette anni. Le cose sarebbero andate così. Nel 1945, in un albergo di Varese, si svolse un convegno sui rapporti culturali fra l’Italia e l’America Latina. Il dibattito fu intenso, costruttivo e durò tutta una giornata; a esso avrebbe dovuto partecipare un Ministro, che però non venne e inviò a rappresentarlo il suo capo di gabinetto. Alla fine il presidente del convegno chiuse il dibattito inviando un messaggio al Ministro assente per il tramite del funzionario che lo aveva rappresentato, messaggio che, purtroppo, diventerà un riuscito presagio: “Abbiamo lavorato egregiamente, ponendo le basi di una prospettiva valida per un decennio; il Ministro, però, non ha avuto la sensibilità di partecipare al nostro incontro; ebbene, gli riferisca – disse rivolto all’allibito capo di gabinetto – che se cominciamo così, cominciamo male”. Quel presidente varesino, oltre che l’antiveggenza, dimostrò di possedere più senso dello Stato del Ministro fedifrago.

Dal 1945 a oggi le cose sono peggiorate perché una classe dirigente culturalmente ferma agli anni ’70 si è trovata a misurarsi con i complessi problemi di una società globalizzata e multiforme senza capirci un beato niente, senza riuscire a cogliere i segni di una crisi che sta per diventare lo spartiacque di due ere. Tale ignoranza ha consentito che anche l’economia reale del Paese si trasformasse (impunemente) in finanza creativa e, soltanto quando i buoi sono scappati, essa ha tentato mollemente di chiudere la stalla: esercizio tardivo, urticante e speriamo non anche inutile.

Da come sta evolvendo il dibattito politico, temiamo che, invece dell’economia boccheggiante, il problema dei prossimi mesi sarà la lotta per diventare leader di questo o quel partito o, se vogliamo, il capo di bande d’incapaci perennemente in lotta tra di loro. Peraltro di facce e progetti nuovi in giro non se ne vedono e, stando alle caratteristiche dello stereotipo che vincerà la prossima contesa elettorale che, in modo semiserio, ha tracciato Marcello Veneziani, forse non esiste: “Parla bene, ha un tono di voce suadente, è moderato ma intransigente […] È pulito, anche la sua auto è elettrica, non sporca. Ha le mani pulite, i piedi profumati, il culetto brilla per igiene e lucentezza. Mangia sano, poco sesso […] È di destra quanto basta, è di centro quanto occorre, è riformista quanto serve…”.

Il prossimo leader degli italiani, dunque, più che uno statista di grande caratura, dovrà essere un dannatissimo camaleonte che, ovviamente, avrà i limiti e i difetti della classe dirigente di cui sarà espressione perché, sia chiaro, quello che eleggeranno (stavamo per dire eleggeremo…) nel 2013 sarà il governo dei poteri finanziari, non degli italiani.

Giusto per ritornare da dove siamo partiti e comunque si pensi politicamente, bisogna definitivamente prendere atto che quella nostra è una classe dirigente incapace di provvedere al governo di questo Paese. D’altronde, a dirlo è stata la medesima classe dirigente che, quando hanno visto avvicinarsi la bancarotta, con un’implicita ammissione d’incompetenza, è andata a rifugiarsi nelle braccia di Monti & C. Trascurando un piccolo dettaglio: noi la delega a governarci l’avevamo data a loro e non ai bocconiani i quali, per fortuna, almeno un po’ di competenza in fatto di economia pare che l’abbiano. Insomma la cosiddetta classe dirigente è riuscita a materializzare l’assurdo secondo cui abbiamo ad amministrarci dei tecnici ritenuti competenti ma senza consenso popolare, mentre chi il consenso popolare lo aveva ottenuto, si è dichiarato incompetente ad amministrarci. È in quest’assurdo, non colto da coloro che si agitano sul palcoscenico della politica, il vero dramma della classe dirigente e del Paese, più che nello spread ballerino e in un debito pubblico da incubo orwelliano. Mario Monti al cospetto di questi cialtroni sembra Abramo Lincoln.

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