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Chiesa

IL MESSAGGIO DI DON LORENZO

LIVIO GHIRINGHELLI - 06/12/2013

Coll’approssimarsi della morte, assistito dalla madre e dai suoi ragazzi, don Lorenzo esclama con toscana autoironia: “Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza… Un cammello che passa nella cruna di un ago”, rifacendosi al detto di Gesù che significa l’estrema difficoltà per un ricco, geloso delle sue ricchezze, d’accedere al Regno di Dio. È nato a Firenze il 27 maggio 1923 da una famiglia agiata inserita appieno nei circuiti culturali della città (tra l’altro è pronipote del famoso filologo Domenico Comparetti, il nonno Luigi è un notissimo archeologo, la madre Alice Weiss una signora ebrea raffinata, il padre un docente universitario): cospicue le rendite, la tenuta di Gigliola a Montesperti annovera venticinque poderi, le vacanze estive sono trascorse nella villa “Il ginepro” a Castiglioncello; nessuna problematica religiosa tormenta i membri agnostici della famiglia.

Con la crisi economica degli anni Trenta il padre è però costretto a trasferirsi a Milano come direttore d’azienda. Qui Lorenzo passa la sua infanzia e l’adolescenza. Questa la descrizione dei compagni in Esperienze pastorali: “Quei ragazzoni lisci, con la pelle che si strappa al primo pruno, con quel sorriso a dentifricio, con quegli occhi vivaci sprizzanti salute, vitamine, divertimento, vacuità d’anima…”. Con stupore della famiglia Lorenzo nel 1937 chiede di ricevere la Prima Comunione. Il 21 maggio 1941 è dichiarato maturo. Decide di dedicarsi alla pittura a Brera, anziché intraprendere la carriera accademica come per tradizione. In una parentesi fiorentina gli capita d’essere scosso dalla frase di una donna del popolo: “Non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri!”. Già però pretendeva che l’autista che l’accompagnava a scuola lo facesse scendere prima per non dovere arrossire del privilegio presso i compagni.

Una mattina d’estate del 1943 Lorenzo entra nella sacrestia di Santa Maria in Visdomini in Firenze per salvare l’anima, commenterà monsignor Raffaello Bensi, suo futuro padre spirituale. “Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire. E così fu”.

Innamorato del bello e funzionale di Le Corbusier e del lavoro collettivo nell’architettura, è indotto ad avvicinarsi alla Chiesa anche dall’interesse per la pittura religiosa e da una ricerca dei colori usati nella liturgia cattolica. All’età di vent’anni l’8 novembre 1943 Lorenzo abbandona il mondo borghese ed entra in seminario (il 12 giugno ha ricevuto la cresima dal cardinale Elia Dalla Costa in forma privata). La conversione è avvenuta per gradi, anche se sboccia all’improvviso. I genitori non assistono alla cerimonia della tonsura.

Pur attraverso i contrasti col rettore e coi superiori Lorenzo dimostra di sapere accettare le dure regole, la sua sarà sempre un’obbedienza critica ma fedele. La coerenza col Vangelo è drastica, senza mezze misure e gli prescrive di salvarsi l’anima facendo una scelta di campo accanto ai poveri, agli ultimi, ai diseredati. L’ingiustizia sociale offende Dio e va combattuta, non mai però con la violenza, bensì attraverso un processo educativo (con l’arma del voto e dello sciopero, dirà più tardi).

Ordinato sacerdote il 13 luglio 1947 è assegnato a San Donato a Calenzano come cappellano di don Daniele Pugi, sofferente per l’età. Cerca dapprima di avvicinare i giovani col gioco del pallone, il ping pong, il circolo ricreativo, ma ritiene ben presto indegno e puerile per un sacerdote di Cristo abbassarsi a tale livello. Organizza allora una scuola serale per giovani operai e contadini, senza discriminazioni partitiche. La scuola è il mezzo per colmare il fossato culturale, che impedisce un’adeguata comprensione del Vangelo e per consentire ai poveri la giusta e necessaria elevazione sociale. Al fondo è la negazione di valori come il piacere materiale, il disimpegno, il privato inteso come chiusura, egoismo, indifferenza. Don Milani ci lascerà come eredità preziosa il motto: I care (me ne importa, mi sta a cuore), il contrario esatto del fascista “me ne frego” (dalla Lettera ai giudici). “Voi – diceva ai poveri – non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta, e vi buttate come disperati sulle pagine dello sport. È il padrone che vi vuole così, perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo”.

Per diventare protagonisti del proprio futuro gli operai devono rifuggire da schieramenti preconcetti, ragionando sempre con la propria testa, non rinunciare mai alla gioia di dire sempre la verità, vivendo senza alcun formalismo e saper essere coerenti tra idee e parole e comportamento pratico. Per don Lorenzo attività pastorale e attività scolastica sono un tutt’uno e comunque scelta di classe significa scelta dei poveri, contro l’omologazione e l’appiattimento delle capacità critiche.

La gerarchia non ritiene di condividere le sue convinzioni, per cui nel 1954 don Lorenzo viene esiliato come priore a Barbiana, comune di Vicchio nel Mugello, minuscola parrocchia di montagna, senza strada, luce, acqua. È parroco di quarantadue anime. Qui si sviluppa la magnifica esperienza, che vede gli alunni col sacerdote diventare protagonisti del processo educativo. Mezzo di emancipazione la lingua, elemento fondamentale di uguaglianza; la capacità di padroneggiarla e di leggere la realtà circostante diventano uno scopo ineludibile. “Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno” (da Lettera a una professoressa, opera elaborata collettivamente edita nel 1967). La scuola italiana è invece chiaramente classista, nel senso peggiore del termine, prescinde dal livello e dalle condizioni di partenza degli alunni e provoca dispersione. “Non c’è nulla che sia più ingiusto, quanto far parti uguali tra disuguali” (dalla stessa lettera) e l’analfabetismo ha come chiara conseguenza di creare pessimi cittadini e pessimi cristiani. Deve poi essere una scuola che include, non autoreferenziale, non deve riprodursi in modo statico. Non deve essere lontana dalla vita e invece radicarsi nel territorio.

Il 12 febbraio 1965 alcuni cappellani militari della Toscana riuniti a convegno fanno pubblicare sulla Nazione un comunicato stampa in cui si definisce l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”. La pronta risposta di don Lorenzo viene pubblicata su Rinascita il 6 marzo, ma è già stata da tempo diffusa. Esplodono le polemiche; in vista del processo conseguente alla denuncia per apologia di reato il priore pubblica la Lettera ai giudici (Barbiana 18 ottobre 1965). Queste le ragioni della difesa: il cardinale Florit ha scritto che è praticamene impossibile all’individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve (Lettera al clero, 14.4.1965), ma la dottrina del primato della legge di Dio sulla legge degli uomini è condivisa da tutta la Chiesa, la dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato è sua dottrina ufficiale, c’è un principio di responsabilità diretta delle nostre azioni di fronte a Dio. Dopo il Concilio Tridentino anche il recente Concilio Vaticano II giustifica quanti ricusano per motivi di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra; non esiste ormai più alcuna guerra difensiva e quindi non esiste più una guerra giusta. Assolto in primo grado don Lorenzo verrà condannato in appello, con estinzione del reato per morte del reo.

Don Milani muore il 26 giugno 1967 ad appena 44 anni a causa di un linfogranuloma degenerato in leucemia. Se ne attende ancora la riabilitazione, come la revoca del giudizio perentorio di inopportunità sancito dal Sant’Uffizio in relazione al ritiro dell’opera Esperienze pastorali a suo tempo impostagli.

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