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Società

VARESE, LA COSTRUZIONE DELLA CITTÀ

OVIDIO CAZZOLA - 24/02/2012

Mi è capitato spesso nel passato di considerare negativamente l’esito di un complesso processo culturale, politico, immobiliare che ha prodotto, tra il 1927 e il 1942, l’attuale centro cittadino.

Ma mi sollecitava anche la necessità di capire meglio quanto era avvenuto. Si partiva da una situazione che la storia urbana aveva determinato, la piazza Porcari, centro del nucleo storico cittadino, cresciuto nel contesto delle attività commerciali, affermandosi come principale riferimento rappresentativo della città superata ormai la rilevanza più antica delle ‘castellanze’.

Il settecentesco palazzo ducale, attuale sede comunale, era già un evento ‘esterno’ non modificativo della organizzazione urbana. Negli anni ’60 dell’800 l’irruzione desiderata della ferrovia definiva una nuova polarità che inseriva nel nucleo urbano la necessità di nuovi percorsi.

Negli anni ’70 dell’800 prende l’avvio l’avventura turistico-alberghiera della città con l’apertura, nel 1874, dell’hotel Excelsior nella villa Recalcati Morosini. La costellazione splendida delle lussuose ville varesine del Sei-Settecento si arricchiva di numerose nuove residenze borghesi sulle colline in vista del lago e delle Alpi.

Tra la fine degli anni ’90 dell’800 e il primo decennio del Novecento si sviluppa il sistema pubblico di collegamenti su rotaia che connette le ferrovie con diverse località. Il tram e le funicolari raggiungono i laghi e la montagna varesina definendo un nuovo grande disegno turistico alberghiero di rilevanza internazionale, che sarà pochi anni dopo penalizzato dalla guerra e dalla crisi economica mondiale. L’amministrazione comunale varesina si pone anzitutto, all’inizio del Novecento, il problema delle strade di attraversamento del nucleo storico. Poi, nell’anno della sua elevazione a capoluogo di provincia, il problema dell’immagine del suo centro rappresentativo.

La vicenda della nuova piazza Monte Grappa si colloca all’interno di un dibattito sull’architettura che si svolge soprattutto a Roma. Una generazione di giovani architetti, alcuni non ancora trentenni, si confronta sugli sviluppi della nuova architettura razionalista europea e coglie una grande possibilità di cambiamento rispetto al passato che l’affermazione e le promesse del regime fascista sembrano offrire.

Il 1928 è un anno di notevole rilievo per i nuovi orientamenti dell’architettura italiana, favoriti, nelle opere, dalla assunzione da parte dei podestà della totale gestione amministrativa dei comuni. A Roma si tiene il primo Congresso nazionale di studi romani e la prima esposizione italiana di architettura razionale.

Le Corbusier avvia in Svizzera i Congressi internazionali di architettura moderna, i famosi CIAM. Vi è ‘uno spirito nuovo nell’aria’, affermava. Mussolini il 1° gennaio aveva affermato nel discorso ai deputati: “Voglio annunciarvi che anche il 1928 sarà un anno denso di opere, secondo il piano di azione già preordinato. La patria fascista farà un altro balzo innanzi e il regime pianterà ancora più profonde le radici nella coscienza del popolo italiano”.

A Roma nel 1919 era stata istituita la Scuola superiore di architettura, nel 1925 veniva fondato il Sindacato nazionale architetti che si rendeva autonomo rispetto al Sindacato ingegneri e architetti del 1923. Escono a Milano, nel 1928, due riviste, “La Casa Bella” e “Domus”. I nomi belli degli architetti che negli anni ’40 e successivi del dopoguerra, saranno i ‘maestri’ della nostra formazione di architetti e di urbanisti, sono già presenti, giovanissimi, nel dibattito culturale e nel progetto. L’impegno diffuso per la riorganizzazione delle città consente un’attività edilizia assai utile ad affrontare la crisi economica.

Ancora Mussolini proclamava: “Noi dobbiamo creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico, dobbiamo creare un’arte nuova , un’arte dei nostri tempi, un’arte fascista.” Ma è in particolare il ‘Gruppo 7’ dei giovani laureati che arricchisce il dibattito sull’architettura e l’urbanistica e la loro necessaria razionalità. Ne facevano parte Rava, Bottoni, Figini, Terragni, Pollini, Cereghini, Gardella, tutti fra i protagonisti di progetti e di opere celebrate nel dopoguerra. Si invocava un nuovo ‘classicismo’ che doveva basarsi “sulla purezza, sull’assoluto, sulle proporzioni, sulla matematica, sullo spirito greco”. Veniva configurato l’architetto integrale come “artista, tecnico, persona colta”. Il rapporto fra l’architettura e lo Stato fascista era al centro dell’attenzione. L’architettura doveva essere considerata ‘arte di Stato’.

All’inizio degli anni ’30 il Sindacato nazionale fascista degli architetti sottolineava la necessità e l’insostituibilità dei concorsi di architettura che consentissero di combattere la gretta insipienza di troppi uffici pubblici. Si verificò un’ampia diffusione del concorso, con la partecipazione e l’affermazione degli architetti e la diffusione di uno stile che veniva definito da Piacentini ‘nazionale’, reazione a un ‘internazionalismo apparente’.

Il confronto teorico (e lo scontro) proseguiva sulle riviste, nei convegni, nelle esposizioni.

Un protagonista, Giuseppe Pagano direttore di ‘La Casa Bella’ sosteneva la necessità di un’architettura come ‘arte sociale’, che esprimesse “chiarezza, onestà, rettitudine economica”. Per Giuseppe Terragni l’edificio doveva evocare un ordine già dato, un ordine ‘antico’, la forza, la trasparenza, le regole della geometria: egli ravvisava nel fascismo il ‘mitico ordine antico’.

È stata già rilevata l’ambiguità dei rapporti fra l’impegno di questi giovani architetti e il ‘regime’.

Il legame istituito con la Germania nazista, la campagna razziale del 1938, l’entrata in guerra nel 1940, il disincantato e sofferto rientro dal fronte di Terragni e la sua morte, la deportazione e la morte a Mauthausen di Pagano, che si era avvicinato alla resistenza nel 1943, la morte in campo di sterminio di Banfi dello studio BBPR pongono la parola fine alle illusioni di questa generazione e sono le premesse per un diverso impegno, dopo il conflitto, dei protagonisti degli anni ’30.

Nel quadro di queste vicende si collocano le decisioni che hanno definito la rinnovata immagine del centro urbano di Varese. È l’anno 1927 quando il Podestà, avvocato Domenico Castelletti, incarica Vittorio Morpurgo, ingegnere romano vicino a Piacentini, di studiare e redigere un piano regolatore e di ampliamento della città. Di questo Piano e del concorso per l’attuale piazza Monte Grappa, parleremo in una prossima occasione.

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