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Opinioni

TRE EROI

CESARE CHIERICATI - 14/07/2017

falconeborsellinoIl 19 luglio di 25 anni fa a Palermo in via d’Amelio, moriva in un attentato il giudice Paolo Borsellino e con lui cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Casina, Claudio Traina. Lo stavano accompagnando dall’anziana madre. Poco meno di due mesi prima la stessa sorte era toccata al suo collega e amico Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo, pure lei magistrata, e a tre uomini della scorta. Un quarto di secolo e sembra ieri quando le due terribili notizie vennero in angosciosa sequenza battute dalle telescriventi dei giornali, diffuse dalla agenzie di stampa, rilanciate da radio e televisione. Internet, twitter, facebook e via elencando erano di là da venire.

Ancora una volta colpita al cuore l’Italia migliore, quella che nella fatica della legalità non vedeva un optional ma un dovere ineludibile, un’etica irrinunciabile in un paese da anni provato dagli scandali, dal terrorismo diffuso, da omicidi di giudici, alti ufficiali dei carabinieri, dirigenti di Pubblica sicurezza ed “eroi borghesi”. Come Luigi Ambrosoli, avvocato milanese designato dal Tribunale di Milano  commissario liquidatore della Banca privata italiana, assassinato la sera dell’11 luglio 1979 sul passo carraio della sua casa milanese dal killer Walter Aricò. Come ammise lo stesso assassino il mandante era Michele Sindona, faccendiere amico di politici e finanzieri italo americani . Aveva il torto Luigi Ambrosoli di voler fare chiarezza e districare i misteri di Sindona, uno dei più inquietanti personaggi italiani a cavallo tra politica, economia e mafia nell’Italia della seconda metà del secolo scorso.

Pur nella diversità dei ruoli, delle professioni e dei compiti cui erano chiamati (Ambrosoli era un libero professionista eccezionalmente scelto per una pubblica funzione) condividevano principi come l’onestà, la riservatezza, l’indipendenza che non hanno colore né patria politica. A più riprese si era cercato di attribuire loro casacche politiche: l’etichetta di destra per Ambrosoli e Borsellino quella di socialista prima e di comunista poi per Giovanni Falcone. Al di là di diverse e legittime affinità culturali a un’area o all’altra del panorama politico nazionale del tempo, i tre uomini erano accomunati da una sola, grande, irriducibile passione civile che li ha portati  a sfidare i poteri criminali fino alle estreme conseguenze.

Ho avuto la fortuna umana e professionale di conoscerli tutti e tre, Borsellino un po’ meglio degl’altri. Per due volte fu ospite della Televisione svizzera, nell’86 e nel ’90.

La prima volta – subito dopo il rinvio a giudizio dei 475 imputati – poi scesi a 460 – per il maxiprocesso – apri una finestra sulla dimensione ormai planetaria, ma assai poco conosciuta all’epoca, della mafia italiana e delle mafie di altri paesi impegnate in traffici colossali utilizzando tecnologie avanzatissime e cooperando attivamente tra loro mentre – ribadiva amaro – “ la giustizia internazionale si muove ancora con riti e mezzi ottocenteschi”.

Tornò quattro anni dopo. Molte cose erano cambiate a Palermo. Dentro e fuori la magistratura, nella politica, nei giornali, nel mondo culturale si erano sedimentate molte avversioni verso i giudici antimafia palermitani che avevano visto sostanzialmente confermato nei diversi livelli di giudizio l’impianto accusatorio del maxi processo che si chiuse il 30 gennaio 1992 con il definitivo sigillo della Corte di Cassazione, 2665 gli anni di reclusione inflitti ai colpevoli. Falcone non aveva però ottenuto il ruolo di Consigliere istruttore lasciato vacante da Antonino Caponnetto, il padre nobile del pool antimafia di Palermo. Gli avevano preferito, in base ai desueti principi dell’anzianità di grado, Antonino Meli – passato anche da Varese – un giudice burocrate che cercò di vanificare quanto promosso e fatto dal suo predecessore. Borsellino chiese allora ed ottenne il ruolo di procuratore delle Repubblica di Marsala dove diede un grande impulso investigativo a inchieste di mafia nella Sicilia occidentale.

Naturalmente non perdeva di vista quanto avveniva alla Procura di Palermo, dove tornerà nel ’91, lacerata dalla vicenda delle lettere anonime del cosiddetto “Corvo”. Lettere diffamatorie che puntavano alla delegittimazione del pool e in particolare di Falcone che il 20 giugno 1989 subì il fallito attentato all’Addaura, una località di mare prossima a Mondello. Borsellino parlava di queste vicende con rabbia trattenuta ed evidente disappunto.

Ciò non gli impedì di affermare apertamente che la “stagione dei veleni” stava riportando indietro di vent’anni la lotta a Cosa nostra. Sapeva benissimo che per lui e l’amico Falcone, legatissimi sul piano umano e professionale, si stava preparando lo scontro decisivo con i poteri mafiosi e con i poteri occulti e collusi presenti nella politica e nello Stato.  Come forse avrebbe potuto raccontare la sua famosa agenda rossa rimasta intatta, ma scomparsa dalla scena del crimine dove perse la vita.

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