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Cultura

GERVASO L’AMICO DI CHIARA

SERGIO REDAELLI - 12/06/2020

gervasoIl giornalista dandy Roberto Gervaso e il “Boccaccio di Luino” Piero Chiara: una strana amicizia che il pupillo di Montanelli, mancato il 3 giugno a 82 anni, spiegò alla sua maniera, con simpatia e arguzia, in una fredda serata di dicembre del 2006. Vale la pena rievocarla per ricordare il rapporto non casuale che Gervaso ebbe con Varese. A cominciare dalla reciproca stima che lo legava a Mauro Della Porta Raffo di cui fu ripetutamente ospite nel Salotto del Caffè Zamberletti. Con il consueto humor pungente Gervaso lo considerava “il terrore di chi scrive e la delizia di chi legge” riferendosi alle Pignolerie del “censore” varesino sul Foglio di Giuliano Ferrara.

Ironico, colto ed elegante con il suo tipico papillon, Gervaso ha collaborato a lungo con Indro Montanelli, soprattutto per i primi volumi della Storia d’Italia, quelli che vanno dal Medioevo al Settecento. Tra i suoi successi di scrittore la biografia su Cagliostro, mago ciarlatano e massone, con cui si aggiudicò il premio Bancarella nel 1973. E le biografie di molti altri personaggi da Nerone a Claretta Petacci, dalla monaca di Monza a Casanova. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato come “un uomo di finissima cultura, protagonista, per lunghi anni, del giornalismo e della vita culturale del nostro Paese”.

Gervaso venne a Varese nel 2015 per presentare a Villa Recalcati, con altri ospiti, il volume di Gianni Spartà È tutta un’altra storia, di cui il giornalista romano aveva curato la prefazione. “La tua città è piena di storia e di storie – fu l’elogio per il collega varesino – il libro è un gran bel saggio con il pregio di un’esposizione lucida e brillante e il difetto di essere troppo breve”. Nove anni prima, nel 2006, aveva risposto all’invito rivoltogli dagli organizzatori del Premio Chiara per ricordare l’autore de La stanza del vescovo a Palazzo Estense a vent’anni dalla morte. E dalle sue parole era emerso un Piero Chiara diverso, privato e poco noto.

Si erano conosciuti nel 1968 attraverso amici comuni di Varese. Si erano rivisti a Milano nell’ufficio-stampa della Mondadori. Chiara aveva già scritto Il piatto piange e La spartizione: “Era considerato uno scrittore minore ma vendeva molto – spiegò Gervaso – Andava spesso a Roma, mi mandava i suoi libri quando uscivano e non perdevo i suoi elzeviri sul Corriere della Sera”. Gervaso, bravo a dipingere il carattere degli amici con pochi tratti sicuri, aggiunse che Chiara non amava perdere tempo: “Era di quelli che considerano il tempo denaro. Frequentava i bar ma non per chiacchierare, era come se osservasse con un terzo occhio quello che gli altri non vedono”.

“I suoi maestri erano Boccaccio, Giacomo Casanova, Balzac. Vedeva i tic che contrassegnano il carattere, raccontava i personaggi di piccoli paesi in ossequio alla regola che, se vuoi essere universale, devi parlare del tuo paese. Un intellettuale con tanti contatti e relazioni. L’archivio privato di Voltaire conteneva 15 mila lettere, lui ne aveva 13 mila e una ventina le scrisse a me”. Tra i due in comune l’ammirazione per Casanova, l’avventuriero-letterato di Venezia. E la confessione di un debito che Gervaso sentiva nei confronti di Chiara: “Il suo modello letterario era Casanova e se io ho scelto di scrivere proprio la vita del grande veneziano, è stato grazie ai suoi consigli”.

“Lui si sentiva il piccolo Casanova di Luino. Ma Casanova era alto 1,91, era bello. Perché Piero Chiara piaceva alle donne? Perché s’immedesimava in certe ambiguità del modello, amava atteggiarsi a seduttore, a macho, a uomo affascinante. Ci teneva alla fama di dongiovanni. In realtà era difficile resistergli per l’intelligenza dei racconti. Era ghiotto di storie di donne narrate con malizia, con eros”. In comune conoscenze rievocate quella sera da Gervaso: “A Lugano viveva Prezzolini, un uomo aperto, che riceveva e rispondeva a tutti. Mangiando fiorentine e tortellini parlavano di letteratura e di politica. Chiara non amava la politica, diceva che non gliene fregava niente, ma poi diventò segretario del partito liberale di Varese”.

“Perché lo fece? Mi confessò di averlo fatto per disporre d’un ufficio e di un telefono abilitato alle interurbane. Venivo volentieri a Varese, in treno, per trascorrere un paio d’ore in sua compagnia, anche se mi costava una cena. Si, qualche vizio privato lo aveva. Era avaro, questo si. Non ti offriva neppure un caffè. Un esempio? Non sapeva quando usciva il suo elzeviro. Allora andava all’edicola, sfogliava il Corriere e lo acquistava solo se c’era il suo articolo, altrimenti lo ripiegava e lo rimetteva a posto. Accettava volentieri premi e presidenze. E si faceva pagare per leggere i manoscritti degli altri. Infine il giudizio artistico sull’amico e collega che considerava un grande romanziere.

“Quanto vale Piero Chiara come scrittore? Dai suoi libri sono stati tratti film commerciali che rendevano tanti soldi e non è un merito da poco. Era uno scrittore popolare, messo al bando anche se aveva un pubblico sterminato. Perché tanto livore? Io credo fosse invidia, chi lo criticava non guadagnava e non scriveva come lui. Piero sapeva, come diceva Montanelli, farsi capire dal lattaio. Si faceva capire da tutti. Come Gozzano coglieva le cose minute, infinitesimali, che però hanno un potere evocativo, creano atmosfera. Nei suoi confronti c’è stata un’ingiustificata emarginazione da parte della critica. Ma per me è nel Pantheon della letteratura italiana del ‘900”.

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