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Politica

L’ANTIPATICO

SERGIO REDAELLI - 17/07/2020

martelliColto, affascinante, raffinato parlatore. Il coté intellettuale di Claudio Martelli faceva strage fra le allieve del liceo Internazionale a Milano, dove insegnava storia e filosofia alla fine degli anni ‘60. Si era laureato qualche anno prima che i “nuovi filosofi” francesi Bernard Henri-Lévy e André Glucksmann mettessero in discussione il ’68; e che la lettura de L’Arcipelago Gulag di Alexandr Solzenicyin squarciasse il velo dell’ipocrisia sulle libertà che i Paesi comunisti erano in grado di garantire agli intellettuali: soffocandole nei campi di prigionia. A fine anno, il professore suggeriva agli studenti di leggere in vacanza i libri del comunista pentito Roger Garaudy.

Poi il giovane maître à penser di idee repubblicane, nato a Gessate nel 1943, fu notato dal leader socialista Bettino Craxi che lo chiamò a Roma. Era il 1976, ne divenne il delfino e iniziò una folgorante carriera: capogruppo consiliare a Palazzo Marino, deputato, eurodeputato, vicesegretario nazionale del PSI e vicepresidente del Consiglio. Sempre all’ombra di Craxi, l’allievo di Pietro Nenni, il padre del socialismo autonomista. Fino a diventare ministro di Grazia e Giustizia nel 1991. Volle Giovanni Falcone alla direzione degli affari penali a Roma, lontano dalla Sicilia. Non gli salvò la vita ma dopo l’attentato varò il regime di carcere duro per i mafiosi.

Lasciata di fatto la politica dopo Tangentopoli, Martelli ha oggi trovato una nuova dimensione di giornalista, conduttore televisivo e saggista. Nel 2013 pubblicò l’autobiografia Ricordati di vivere e ora torna in libreria con L’Antipatico (La nave di Teseo), una riflessione sugli anni politici di Bettino Craxi, un’analisi affettuosa e militante di chi ancora oggi dirige lo storico giornale socialista L’Avanti. Non una biografia: “Il libro – spiega il risvolto di copertina – è la storia di un’epoca sfrenata e demonizzata da un uomo enigmatico”. E antipatico, appunto, forse perché troppo sicuro di sé, autoritario, ribelle, perché sfidò gli Usa e l’Urss, perché tenne in scacco la Dc e il Pci con altera spregiudicatezza.

Un personaggio da ripensare a vent’anni dalla morte. Non tanto perché pagò il prezzo più caro di un’epoca e di un modo di finanziare illegalmente i costi della politica, che egli stesso aveva contribuito a ingigantire con un’idea sfarzosa e televisiva dei rituali del partito; ma anche per il ruolo che svolse tra i due colossi agonizzanti della politica italiana, il partito comunista sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino e la Dc orfana dei lontani valori fondativi di don Sturzo. Entrambi finiti con esiti diversi, insieme al Psi di Craxi, nel mirino del pool Mani Pulite che indagava su illeciti e tangenti con metodi magari criticabili, non su teoremi irreali.

Craxi fu un personaggio in fondo tragico, con quella morte da esule o da ricercato, secondo i punti di vista di amici e nemici. Al termine di una penosa odissea personale, il diabete, le operazioni alla gamba malata, le complicazioni successive. Ha lasciato l’idea di un uomo orgoglioso e ostinato, convinto di non meritare il trattamento giudiziario che subiva, incapace di piegarsi, deciso a non accettare la gogna di un possibile arresto. E la prova di forza a difesa della sovranità italiana che mise in campo a Sigonella, nel 1985, sostenendo lo scontro diplomatico con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.

Lo ricordate? Si era opposto alla cattura nella base aerea siciliana, da parte delle forze speciali americane, dei quattro terroristi palestinesi che avevano sequestrato la nave da crociera Achille Lauro uccidendo un turista americano, Leon Klinghofer, paraplegico, gettandolo in mare. Al termine di laboriose trattative, i terroristi giunsero in aereo a Sigonella dove gli uomini della Delta Force volevano prenderli in consegna con la forza e furono invece “difesi” dai carabinieri. I reati erano avvenuti su una nave italiana e i colpevoli dovevano essere giudicati da un tribunale italiano. Questo pensava il presidente del Consiglio Craxi e pretese che avvenisse.

“Assumere su di sé una responsabilità di tale portata – applaude Martelli nel libro – non rientra nei compiti di un bravo leader politico, è una decisione da statista, di chi sa che la sovranità è l’essenza dello Stato”. E che il leader del Garofano possedesse le doti dello statista, per Martelli è evidente anche nella revisione del Concordato tra Stato e Chiesa voluto da Mussolini. La rinegoziazione di Craxi del 1984, scrive l’ex delfino, “non solo cancellò l’obbrobrio della religione di Stato ma sostituì la congrua, cioè il reddito di Stato garantito ai sacerdoti, con la libera determinazione dei contribuenti di assegnare alla Chiesa cattolica l’8 per mille.

Stabilì che il metodo dei negoziati e degli accordi valeva anche per i rapporti con le altre religioni presenti in Italia. E diede finalmente concreta attuazione all’impegno previsto dall’articolo 8 della Costituzione per la parità piena ed effettiva, di fronte alla legge, di tutte le confessioni religiose diverse dalla cattolica; inaugurando rapporti di cooperazione con lo Stato italiano. La revisione del Concordato – aggiunge Martelli – superò il pregiudizio anticlericale e il temporalismo clericale e dimostra che Craxi era un uomo di Stato guidato da una visione lungimirante dell’interesse nazionale”.

Per l’ex ministro, Craxi fu un leader di governo capace di decidere quando necessario e di mediare quando opportuno: “Sull’inflazione galoppante che erodeva salari, pensioni e risparmi cercò di evitare lo scontro con il Pci di Berlinguer e con la Cgil di Luciano Lama, che rispettava e stimava. Si rese disponibile a vari gradi di mediazione e affrontò la sfida del referendum comunista che voleva abrogare il taglio della scala mobile lasciando più soldi nella busta-paga degli italiani. La maggioranza dei votanti gli diede ragione votando “no”. Quando il popolo è informato – è la conclusione di Martelli – sceglie la serietà e non la demagogia”.

Come un imprenditore, Craxi dovette sostenere le cause in cui credeva, i compagni, gli amici, gli alleati e incrementare le attività di partito: “Si trattava anche di finanziamenti illeciti – ammette l’ex delfino – e della parte che affluiva al Psi Craxi doveva avere contezza, come gli altri segretari l’avevano dei finanziamenti che affluivano al loro partito. La differenza è che le sue responsabilità materiali e morali se le è assunte senza ipocrisie e infingimenti, gli altri capi no. E Craxi, a cui da un certo momento in poi non mancavano risorse anche ingenti, non ha mai perso l’anima per arricchire se stesso. Il denaro per lui è sempre rimasto un mezzo per fare politica”. Un mezzo dispendioso però fino a dipenderne, si è capito più tardi.

A livello internazionale era amico dei Paesi arabi moderati, dei palestinesi e di Arafat. Ma lo era anche di Israele e dei suoi capi laburisti, Shimon Perez e Yitzhak Rabin. Concertandosi con i leader socialisti Mitterrand e Gonzàles negò al presidente Reagan l’uso delle basi italiani per il decollo dei cacciabombardieri diretti in Libia per eliminare Gheddafi. E pur nutrendo una lealtà profonda per i valori occidentali – scrive Martelli – chiamò in causa Henry Kissinger per il golpe cileno di Pinochet e manifestò il suo dissenso verso la guerra navale scatenata da Margaret Thatcher contro la giunta militare argentina per il possesso delle isole Falkland-Malvinas.

Ma alla fine perché Craxi era antipatico? “Non lo era Andreotti, accusato di quisquilie come essere colluso con la mafia palermitana e di aver protetto Sindona – riflette Martelli – Non lo è Berlusconi, demonizzato più e peggio di Craxi, forse per la giovialità, le barzellette, la passione per le belle donne, le vittorie in Champions League e i successi negli affari”. Perché allora Craxi? “Perché incarnava la politica in un’epoca di avversione ai partiti – risponde l’antico amico – Perché non era un leader piacione, di quelli che sorridono e fanno battute. E perché per dieci anni ha guidato la politica italiana, e per quattro il governo, con i migliori risultati”. Parola di Claudio Martelli.

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