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Attualità

LASSÙ

EDOARDO ZIN - 22/07/2022

Tofane, Cinque Torri e Cristallo

Tofane, Cinque Torri e Cristallo

La calura che implacabile s’ostina a farci soffrire non ha arrestato la baldoria dei nostri ragazzi che hanno affollato oratori, GrEst ed ora popolano le nostre montagne con i campi estivi. Avevo tredici anni quando anch’io scoprii il mondo delle Dolomiti.

Raggiungere il Falzarego – dove sorgeva, ed esiste tuttora, un villaggio formato da tre grandi edifici costruiti dall’esercito austro-ungarico per ospitare i soldati feriti nella grande guerra, da un grazioso chalet in stile tirolese allora destinato agli ufficiali medici e da una chiesetta di costruzione più recente – era una vicissitudine. Partivamo in treno diretti a Sedico, da qui prendevamo la coincidenza per Calalzo e proseguivamo per Cortina d’Ampezzo, ove un autobus ci attendeva per portarci al villaggio del Falzarego.

Ricordo che ai miei occhi di ragazzo, la strada statale assomigliava ad un immobile serpente. Era il crepuscolo quando arrivai a Cortina. Rimasi stupito dalla Croda del Lago e dall’ampio Cristallo; percorrendo la valle Costeana, dal finestrino ammiravo da una parte i monti pallidi, dai vertici candidi, la grandiosa mole tutta fuoco delle Tofane, dall’altra, le Cinque Torri. Arrivati al Passo Falzarego, scendemmo per distendere le gambe intorpidite. Subito una schiaffata di aria pungente mi colpì e mi fece capire che a 2100 metri occorre indossare berretto e maglione. Rimasi stupito dalla roccia grigia del Lagazuoi e dal costone del Sass de Stria.

Scendendo dal passo, fui ospite del villaggio per quindici giorni. Incominciai quell’anno la mia esperienza ai campi-scuola, che durò ininterrottamente per sedici anni. Dapprima imparai i valori che orientano la vita di un ragazzo, andando alla scoperta della montagna con una compagnia di coetanei con i quali condividevo giochi, escursioni, canti, laboratori, momenti di riflessione e di preghiera. Successivamente trasmisi questi segreti del campo come educatore. Infine – dal 1963 al 1969 – diventai “governatore del villaggio” e per sei anni, coadiuvato da valenti, impareggiabili maestri come p. Balducci, il card. Lercaro, da amici giovani politici, che avrebbero occupato in seguito alti posti di responsabilità, riflettemmo con giovani più adulti sul valore della professione, sull’impegno per una ricerca della propria vocazione, sul posto di laici nella Chiesa (era incominciato il Concilio!) e sull’impegno nello stato democratico.

Fu lì che mi si svelò la vita come vincolo con gli altri. Voler bene agli altri, aiutare chi ha bisogno, essere gentile me lo avevano insegnato i miei genitori e i maestri a scuola, altri argomenti li avevo studiati sui libri, ma al Falzarego imparai che se gli alberi hanno delle radici, gli uomini e le donne hanno delle gambe con le quali si può andare incontro agli altri. Capii che l’amicizia è un’esperienza di incontro e fu lì che nacquero le prime, vere amicizie che durano ancora oggi, vere virtù che si rinnovano di un presente arricchito del passato.

Accanto all’amicizia appresi l’arte di stupirmi davanti alla natura. Ero circondato di vette, di crode e di cengie, di pascoli erbosi che s’incrociavano con il cobalto del cielo e con l’aria che odorava di resina. Mi piaceva, scesa la sera, ascoltare il fragore dello spumoso Cordevole che scende verso Livinallongo. Il resto era avvolto dal silenzio.

Un giorno alla settimana era dedicato all’escursione. Fu un’impresa salire verso il passo, dapprima in fila indiana lungo un sentiero, poi seguendo una mulattiera scavata sul costone di una roccia. Durante la scarpinata, gli occhi erano rivolti alla vetta e mi chiedevo: “Ce la farò?” Giunto sulla cima dell’Averau, godetti la meraviglia di tutta la cerchia delle Dolomiti: dal Civetta alle Tre Cime. Ero stanco, ma la spossatezza mi metteva in cuore tenerezza e allegria. Il sole bruciava e il vento si era calmato. Le braccia d’un Dio crocifisso segnava il punto più alto raggiunto da un uomo. Pregammo assieme. Scesi di corsa dalla vetta, sostai tra i prati in fiore, mi sdraiai e rimasi stupito davanti alla grandezza delle Cinque Torri.

Da allora ho sempre pensato che per placare la tristezza occorre guardare lassù, verso il cielo. Per ascendere occorre guardare in alto. Soprattutto in questo tempo in cui l’uomo è perduto nell’orgoglio e ha bisogno d’implorare la fraternità sulle tragiche ombre del pianeta.

Ai ragazzi e ai giovani che rientrano dai campi estivi auguro di riportare a casa la gioia dell’incontro con gli altri, la bellezza del creato, l’amore per Colui che si rivela nell’amicizia e nella bellezza della normalità di ogni giorno.

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