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Attualità

VITA E CITTÀ SUL PRECIPIZIO

DINO AZZALIN - 17/10/2014

Varese dal campanile del Bernascone

Varese dal campanile del Bernascone

Questa mattina mentre facevo colazione con mio figlio mi è uscita la frase “Oggi vorrei essere ai Caraibi”, una frase banale se non fosse che ci ho aggiunto in modo inconsapevole “a vivere”, e questo mi ha fatto insospettire, perché anche in maniera inconscia, per la prima volta nella mia vita si fa strada un pensiero inquietante: non trovarmi più bene nel luogo in cui vivo. Cioè il posto in cui sto vivendo la mia vita non è più quello in cui vorrei stare. E allora mi sono chiesto: è l’incipiente avanzare dell’età, o la riflessione in tempi di bilanci che s’appressa? O sono io che sto cominciando a morire?

Oppure, ancora, una semplice constatazione di una realtà annoiata anzi addirittura fastidiosa in cui mi sembra precipitata la città.

A me sembra piuttosto che questo parterre di grandi occasioni lo abbiamo sprecato, dico abbiamo perché qui c’entra Varese, con i cittadini e le associazioni, nessuno escluso, che non possono cambiare un sistema vecchio e obsoleto se stanno barricati nelle loro case o appoggiano scelte scellerate da un punto di vista politico. Davvero è un fatto nuovo per me così da sempre e zanzottianamente legato al territorio ma con una mente cosmopolita, immerso in questi boschi, stupito dalle Prealpi circondate da un magnifico “Lake district”, ma anche coi pensieri nel mondo tra l’Africa e l’Oriente cui talvolta la bruma che sale dal lago mi riporta evocando paesaggi surreali e vulcanici dell’Indonesia o della Mongolia. Il paesaggio poetico coincide con lo spleen, con la malinconia, come non mai così immerso nel mondo del ricordo che ho perlustrato in lungo e in largo.

Lontani i tempi della guerra santa dei pezzenti di quella locomotiva di Guccini gettata sopra i continenti, quando si andava per strada incuranti del modo o della meta, “sì una volta” direbbe mia madre… Ma una volta più recente c’erano giovani che fondavano radio libere, che facevano ciclostili in proprio, che giravano l’Europa con l’autostop o con l’interrail, che fondavano movimenti, che fissavano riunioni… I muri non erano imbrattati se non con proclami rivoluzionari che venivano diffusi dappertutto e i giovani partecipavano alla vita politica della città come illusi padroni del tempo, insomma una realtà interattiva con il Comune che aveva casse floride spremendo gli oneri edilizi (il prezzo erano le orribili gettate di cemento) e promuoveva cultura da ogni parte e tante iniziative. Una cultura di partito dominante certo, che diceva anche che i comunisti mangiavano i bambini, ma almeno pensante e non strisciante di razzismi, di qualunquismo saccente… Il nero che sporca e che ci porta via il lavoro…

Il vero terrorismo è quello della finanza, le agenzie di rating che hanno destabilizzato le economie degli altri paesi soprattutto quelli poveri che vengono depredati delle loro risorse primarie, non solo dalle guerre ma soprattutto dalla speculazione. Lo sanno anche i politici vecchi e nuovi; lo ha detto anche Cristina Kirchner all’assemblea dell’Onu.

Chi scappa da queste follie non lo fa con gli yachts o coi biglietti aerei. Sono vittime ancora una volta di trafficanti di esseri umani come nello schiavismo, coi barconi della morte e non c’è nessun comitato a riceverli ma una umana accoglienza e molta indifferenza. O vengono emarginati perché minano il nostro stato di placidi benpensanti, perché che ci portano via il lavoro, ma è bastata una crisi economico-finanziaria planetaria per dimostrare il contrario. No, non sono loro a portarci via il lavoro ma politiche spregiudicate e obsolete che hanno spazzato via miliardi di dollari e folli certezze capitalistiche. Certo bisognerebbe insegnare loro a pescare il pesce e non averlo in sussistenza ogni giorno creando altre pericolose dipendenze.

Ho scelto Varese come buen retiro ma oggi vorrei tanto essere ai Caraibi con Hemingway o a Tahiti con Gauguin o a Vevey sul lago di Ginevra dove visse Charlie Chaplin o a Montagnola vicino a Lugano dove abitò e fu sepolto Hermann Hesse, luoghi insomma che lasciassero vive le creatività artistiche e si vivesse in quella armonia che un luogo amato sa dare.

Varese invece sembra essere diventata una città per vecchi senza più aziende, senza una cultura forte, dove ogni cosa sembra rifulgere di degrado e sporcizia, e non si dica che è colpa degli amministratori, la colpa è solo nostra, del nostro sonno, del nostro pensiero soporifero, della nostra letargica indifferenza. Provate a passare in centro il sabato notte – io l’ho fatto qualche volta – lì ci sono stati i nostri figli, i nipoti, i pronipoti; ho redarguito un giovane che orinava contro un muro, un’altra ragazza che se la prendeva a pedate con una saracinesca chiusa…

Mi sono chiesto se mio figlio farà anche lui le stesse cose, perché la crisi è di una famiglia che non sa più insegnare il significato della polis e del vivere civile, del rispetto degli altri e dei beni comuni, spiegando che prendendo a calci un cartellone o un bus, prende a calci se stesso. Perché oggi i valori non sono cortesia, rispetto, gentilezza, ma aggressività, intemperanza, violenza. Oggi prevale la cultura di questo o di quel prodotto elettronico; i figli non si parlano, se non con Ipad, Iphone, whatsapp, sms, utili a un servizio del dialogo e della comunicazione che però non esiste.

La colpa non è del sistema, ma il nostro silenzio culturale, della nostra placida tranquillità domestica, dove educhiamo i figli alla sicurezza e non alla precarietà, dove insegniamo poco e sentenziamo molto. A questo dobbiamo educare i nostri figli, ascoltandoli, perché da bambino prendi l’acqua che ti dà e se è buona sopravvivi, se è sporca si sporca anche l’uomo che è in noi. E la scuola oggi relegata a semplice ricovero di ragazzi, mentre i parenti sono indaffarati per procurare il pane quotidiano: il vizio sta nella mediocrità della riflessione, la scuola deve riprendere il proprio ruolo educativo e formativo.

La storia su “Fatta la legge fatto l’inganno” o su “Chi se ne frega degli altri” trova nell’impunità la propria bandiera, ma una cultura pressappochista e furbastra non può che essere perdente con la consapevolezza che viviamo in due o tante Italie, quella che va col casco in motocicletta e quella che va senza, quella da terzo mondo di Torre Annunziata e quella delle disperazioni che vengono da Lampedusa.

Ormai non c’è nessuna differenza tra l’Italia che paga le tasse e quella che non le paga o c’è invece differenza tra quella che lavora e quella che non lavora, o quella dove se a morire è un extracomunitario annegato o un annegato italiano nel Mare Nostrum fa differenza: io non credo che questo sia l’Uomo – direbbe Primo Levi – o almeno questo non è quello che ci si aspettava dallo sviluppo e dal progresso. Ecco perché vorrei essere ai Caraibi oggi e anche domani, e non vorrei più vedere in televisione politici ignoranti che sventolano bandiere d’ogni colore, e che vanno in Parlamento senza sapere cos’è una Costituzione o giornalisti o comici superpagati che fanno della satira e della politica una becera disinformazione confusiva e di parte, che ridono e fanno ridere quando bisognerebbe solo piangere a dirotto e rimboccarsi le maniche per non affogare in questa valle di lacrime. E pur non condividendo certe scelte assurde dei nostri amministratori locali, non me la sento di sparare sul mucchio, c’è gente per bene dappertutto, solo che i migliori in politica hanno sempre la peggio.

Non difendo a testa bassa parcheggi inutili, perché sarebbe come ignorare le vere priorità di una città, come non difendere gli ultimi e non affrontare la vera emergenza come i senzatetto, gli affamati, i bisognosi di ogni razza e di ogni religione. Varese è sempre stata una città generosa e laboriosa, un tempo anche Città Giardino coi redditi più alti della penisola, che ha accolto la mia famiglia in pieno boom economico, e perché non dovrei accogliere io chi ha bisogno?

Oggi Varese sembra una città assente senza più progetti nel futuro i cui amministratori si aggirano come pachidermi in un negozio di cristalleria pensando a come rompere gli ultimi bicchieri e senza più sapere cosa farne delle ultime risorse da bere.

“Bisogna fare una grande ginnastica d’obbedienza per diventare così coglioni per non capire che non ci sono poteri buoni”, cantava De Andrè. Ma la politica o la si fa o la si subisce, e un riverbero di incursioni nuove e qualche brezza puliscono il lago come un potere forte; una carezza invisibile che non si è ancora dileguata nello spazio della democrazia, nonostante spirino dittature dal viso dolce e sorridente.

La meditazione allo specchio di oggi si taglia in due al che i cacciatori di fantasmi scappano a gambe levate anziché i fantasmi, così da lontano sento del rumore di penne che firmano petizioni, e sempre più vicini nascono comitati, liberi cittadini che salgono sulle piante a difenderle, la stampa che non è soltanto quella di partito vola anche via etere sui blog, la Procura avvia indagini con una vista nuova sul paesaggio: evviva!

Ma… allora, non siamo tutti morti, c’è ancora qualcuno che sa dire e può fare le cose, e si può ancora sognare. In questo momento nella mia casa da una parete si stacca un quadro, il falegname raccoglie i frammenti di vetro, ci guardiamo negli occhi come a chiederci chi pagherà la cornice, Dudley l’australiano, risponde Terenzio sicuro!

No. È solo un modo per svegliare le nostre coscienze. Non sono i zazzeruti di un tempo, anzi qualcuno è senza capelli, stempiato o coi capelli bianchi… Ai Caraibi ci andrò ma più avanti così mia moglie sarà più felice per un po’, ci andrò in vacanza però, alla fine ci si rompe le scatole anche ai Caraibi e ben venga la bruma del lago allora.

Il mio posto è qui dove è sepolto mio padre, dove vive la mia famiglia, gli affetti più cari. Perché se c’è qualcuno che lotta per un albero o un prato o un povero, allora significa che c’è ancora una speranza. E io sarò per quel poco che conta da quella parte, sempre.

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