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Cara Varese

GIORNALISTI, LIBERTÀ, CULTURA

PIERFAUSTO VEDANI - 29/04/2016

Mauro Luoni

Mauro Luoni

Diventare vecchi è anche un privilegio, ma sono anni in cui si provano forti dispiaceri quando se ne vanno personaggi degni di stima e riconoscenza come Anna Bonomi, riferimento eccezionale per la cultura cittadina e per la scuola, oppure ci lasciano, nel pieno della maturità, cari amici e colleghi come Mauro Luoni, trave portante della comunicazione e dell’immagine dell’Unione Industriali, pubblicista molto preparato, sensibile e nel privato con tanti interessi culturali che davano alla sua capacità professionale un ulteriore importante spessore.

Abbiamo lavorato assieme per otto anni che per me sono stati importanti per completare un’esperienza iniziata in un quotidiano e poi continuata con la pratica in tutti i mezzi di comunicazione, mondo web compreso.

Sono un vecchio pirata dell’informazione diventato professionista in una realtà giornalistica dove c’era il dovere anzi il culto del rispetto, ho cercato di non sgarrare mai, come cronista ho fatto delle eccezioni davanti a imprese, chiamiamole così, di politici. Ho rispettato anche le opinioni dei colleghi, l’ho fatto per principio, per amore della nostra libertà che ogni tanto qualcuno vuole limitare.

Sono tentativi con precedenti illustri se Giulio Andreotti, apertamente, raccogliendo forse preoccupazioni che circolavano in Vaticano, proponeva qualche paletto per noi

scribi quando nell’immediato dopoguerra a Roma si creavano le norme guida della comunità nazionale.

A garantire una stampa libera fu Alcide De Gasperi, personaggio quasi mai recuperato quando oggi si discute di democrazia.

Anche in tempi difficili, se la si vuole, si ha la massima libertà in campo giornalistico e tuttavia i limiti non mancano nel momento in cui ce li chiedono gli editori. Quasi sempre sono limiti accettabili, che conosciamo prima di entrare a far parte di un gruppo di lavoro. Ce ne sono poi altri che noi stessi poniamo a titolo di riguardo per situazioni particolari o anche per un pizzico di tutela personale. Sono iniziative mai censurabili.

Ho pensato di recente alle difficoltà della nostra professione leggendo, su alcune pubblicazioni, la ricostruzione della storia del Premio Chiara, istituito verso la fine della Prima Repubblica e che conobbe subito un grande successo.

L’idea di un’incursione importante di Palazzo Estense nell’ambito letterario nazionale, senza precedenti a Varese, fu nel 1989 dell’assessore De Feo, essendo sindaco Sabatini. De Feo chiese lumi e collaborazione a Massimo Lodi, amico dello scrittore luinese. Per una conferma della scelta fatta su una innovativa indicazione di Massimo, anche a me venne chiesto un parere che fu positivo; nell’occasione venni anche io arruolato: saremmo poi stati i due segretari del premio.

Lavorammo per quattro anni bene, poi la fine della Prima Repubblica vide un commissario sostituire in Comune il sindaco. Il commissario era un caro amico di Varese, Umberto Calandrella, così andò in porto e bene anche la quinta edizione del premio.

La sesta si iniziò con sindaco Fassa e con l’allontanamento dell’intera giuria letteraria del Chiara che poteva contare su scrittori prestigiosi come Michele Prisco, Raffaele Nigro e Fernanda Pivano; si volle rinunciare pure a Massimo Lodi, che io seguii subito nell’esilio sulla cui matrice razzista gli scrittori stessi, alcuni erano stelle del Sud, non ebbero dubbi. Raffaele Nigro lo confermò in una lettera. Non si è mai saputo chi fu il regista dell’operazione, tanto più che era larghissima nella Giunta la presenza di socialcomunisti.

Oggi quando si racconta la storia del Premio Chiara si comincia dalle dimissioni dei fondatori, non si parla nemmeno del difficile cammino della manifestazione culminato con l’emigrazione da Varese del premio. Una fine ingloriosa che fu una vera sconfitta per l’intero Carroccio.

Potrei citare anche la vicenda storica confezionata su misura per una tv e come tale raccontata, ho anche seguito l’entusiastico recupero della storia di una radio, recupero doveroso di giorni epici, ma non tutti poi tali. Insomma a volte quando guardiamo in casa nostra forse noi giornalisti – magari nemmeno ce ne accorgiamo – finiamo per rinunciare a spazi di libertà che in altre occasioni da altri giustamente pretendiamo.

Può accadere perché a distanza di anni si presentano meno potenti verità e vicende nelle quali abbiamo creduto. Gli storici di professione procedono sicuri nel percorso della revisione, a noi a volte scoccia rivelare e accettare anche piccoli errori o scelte non felici. E trascuriamo la verità. E siamo meno liberi.

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