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Il punto blu

BAGNÀ LA PAROLA

DINO AZZALIN - 10/01/2020

Re Nudo pop festival al Parco Lambro

Re Nudo pop festival al Parco Lambro

Quando è arrivata la telefonata di Alberto Bortoluzzi stavo leggendo Nietzsche, “Il gioco, la festa rivoluzionaria”, un articolo del 1971 pubblicato da Nuova Presenza (Editrice Magenta- Varese) a cura di Kostas Axelos ed ero fermo proprio su questa frase dai proverbi di Salomone “Ero ogni giorno la sua delizia (di Dio) e mi rallegravo alla sua presenza in ogni tempo, giocavo sulla faccia della terra e la mia delizia era stare tra i figli dell’uomo”. Alberto mi aveva illustrato la sua idea geniale: una mostra fotografica di un preciso periodo storico varesino con abbinate alcune testimonianze e mi aveva affidato il compito di scrivere cinquemila battute sul tema della “festa”.

Ci pensai un attimo, andai immediatamente al testo che stavo leggendo e non potei fare altroche pensare ai nostri anni migliori, e, se non avevo idea quante pagine fossero così tante battute, sicuramente sapevo quanto furono importanti le feste della mia e nostra gioventù. Devo dire che il tema mi era tanto familiare quanto fu il modo di essere aperto e scanzonato: proprio nei periodi festosi della giovinezza, per gioco intuii che festeggiare qualsiasi cosa era anche un modo per essere felici. Quel compito assegnatomi era davvero insolito e straordinariamente coincidente con il caso. Concluse la telefonata dicendomi che aveva pensato a me ”perché le feste che organizzavi tu erano meglio di quelle di Sorrentino, ne “La Grande Bellezza”. Nessuno in così tanti anni mi aveva mai detto una cosa simile, piaggeria? Complimento vero? Chissà sta di fatto che a me le feste non piaceva solo organizzarle, ma dare a ogni occasione il pretesto giusto per farle, come quando, a Totò, dissero che era una grande attore e lui si mise a ridere.Nessuno in vita mia mi aveva mai chiesto un articolo sulle feste che avevo organizzato nel corso della gioventù. Lo ammetto, pur non essendoci niente di letterario mi piaceva pensarci e scriverlo. E se sono stato un gaudente per davvero non potevo certo sapere che proprio per questo un giorno ne avrei scritto. E un giorno anche Guccini dopo un concerto e Finardi per una finale degli europei, si erano presentati alle soglie di casa del Faido. Devo dire però, per dovere di cronaca, che mi sono sempre rimaste negli occhi le feste della mia infanzia e che i miei davano nella campagna

veneta, dove sono nato, sul selciato di queste grandi o piccole fattorie che era lo stesso dove seccava il grano raccolto. Erano feste molto semplici, qualcuno strimpellava qualche strumento – mio padre la fisarmonica – le donne chiacchieravano, danzavano e finiva sempre con una grande “balla” generale e tutti quanti a letto felici, contenti e “imbriachi”. Le migliori erano quelle che avvenivano in onore della vendemmia e dell’uva pestata nei tini, a cui ho avuto, quando ero bambino, il privilegio di partecipare. Un’altra ricorrenza sempre nel corso della mia infanzia era la uccisione del maiale a San Martino quando il mosto diventava vino, e per confermarlo si iniziava ad aprire i tini pieni del grintonelpopà de tuti i vin così come lo chiamavano. Non parliamo delle feste per la raccolta del grano e della trebbiatura, alla fine delle quali oltre all’allegria i covoni di paglia erano i nascondiglipreferiti della miglior gioventù pontelongana, a noi non ancora in età da marito, non restava altro che spiare i grandi e farne tesoro.

Sono stato un bambino fortunato, nella semplicità contadina ho imparato tante e tali cose che ancora oggi attingo come in un forziere dalla ricchezza inesauribile, e non feste qualsiasi, né aristocratiche naturalmente, ma feste di una grande valenza umana, perché l’unica, dopo la messa, di straordinaria forma di aggregazione sociale. Specie dopo i funerali o ai matrimoni, quelli erano veri e propri incontri al filo di lana, vinceva di più chi aveva parlato meno e bevuto senza mai fermarsi.Quella di Sant’Andrea, patrono del paese che cade ogni annoil 30 novembre era poi la più sentita per noi bambini, perché il piazzale antistante la chiesa si riempiva di giostre ed era una vera e propria cuccagna.

Anche i risvolti e scopi benefici e di altro tipo erano una prassi “normale” negli anni Settanta a Varese come dicevano gli avventori del bar-trattoria Nazionale di viale Belforte, dove eravamo approdati nel ‘62: “n’dem a bagnà la parola”, e se tutto iniziava tra vino oggi imbevibile, alla fine era una gara all’ultima bottiglietta di campari e cinzanini, dove l’Amilcare, l’Egidio, e l’Ermino si cimentavano nel canto come tre tenori. Erano gli anni in cui si usciva dall’indigestione dell’impegno politico: la rivoluzione era fallita e molti dei nostri amici avevano preso la via della clandestinità, altri dello “sballo” leggero, alcuni di quello pesante, mentre l’ala più morbida quella dell’impegno nel sociale o della politica militante nelle istituzioni, si era accontentata di un soporifero ma salutare revisionismo. Così iniziai con altri amicia frequentare gli ambienti di “Re Nudo”a Milano e anche a Varese seppur in maniera sporadica, in uno scantinato di via San Francesco, e la stampa alternativa a Biumo dove abitavo.

“Re Nudo” è stata una delle principali riviste italiane dedicate alla controcultura e alla controinformazione, fondata a Milano nel novembre 1970 da un gruppo di intellettuali e di artisti per lo più provenienti dai movimenti extraparlamentari. La rivista diffuse in Italia informazioni e tematiche proprie della cultura underground internazionale: musica, droghe, raduni pop, sessualità libera, pratiche sociali alternative, fumetti. In questa ottica noi ventenni di allora ci siamo formati e paradossalmente adeguati a un costume militante di cui facevamo parte. Ecco devo dire che ho sempre avuto un certo intuito nel trovarmi al momento giusto e al posto giusto quasi a testimoniare il mio tempo con altri amici ognuno con le proprie particolarità e bagaglio culturale. La redazione era fortemente critica nei confronti dell’area più settaria e dogmatica del Movimento Studentesco (di cui facevo parte) e considerata troppo moralista. Nel corso degli anni Settanta, “Re Nudo” si fa promotore di una serie di raduni pop, i Festival del proletariato giovanile, lanciando lo slogan “facciamo che il tempo libero diventi tempo liberato”, in controtendenza con il disinteresse della sinistra extraparlamentare nei confronti della musica rock. Il primo di questi raduni si svolse a Ballabio, sopra Lecco, dal 25 settembre 1971: vi presi parte anch’io e ricordo che in quella radura sopra il lago di Como, c’erano alcune migliaia di persone. Nel giugno 1972il secondo raduno si svolse a Zerbo, sul Po, presente con altri tre amici,con una partecipazione ancora maggiore, e una libertà dei costumi ancora più disinibita. Ricordo i bagni e i “battesimi” sulle rive del Po, gli accoppiamenti “liberati” dal perbenismo militante ma non dai massacranti assaltidi nugoli di zanzare e pappataci. Nel 1974 il raduno pop di Re Nudo è al Parco Lambro di Milano. La «Festa», richiama per quattro giorni, dal 13 al 16 giugno, migliaia di spettatori con una punta eccezionale il sabato, per l’esibizione della PFM (Premiata Forneria Marconi). Si avvicendarono sul palco circa trenta «act», tra gruppi e solisti: nomi celebri come Perigeo, Alan Sorrenti, Area,Battiato, attorniati da altri già parzialmente affermati. Io partecipai, come dico sopra, a tutti e tre i radunima senza mai sposare fino in fondo quella “filosofia”: la storia della droga mi convinceva poco, quella del sesso libero un po’ di più, e devo dire che alla festa di Ballabio-folk mi aveva colpito proprio questo. L’estrema naturalezza con cui vedevo accoppiarsi i più “coraggiosi” o i più “fumati”, mentre si ascoltava pop-rock- duro per me, che ero abituato a Gianni Morandi, Sergio Endrigo o Marisa Sannia, o il più americanoNeil Sedaka o i Procol Harum, lo ammetto, è stato davvero rivoluzionario. Così, agli inizidegli anni Ottanta quel ritrovarci spesso si trasformò ben presto in vere e proprie occasioni festose molto conosciute non solo in città, ma anche altrove, tanto che molti affluivano dalla provincia, da Milano, dal Piemonte e dalla vicina Svizzera. Già qualche anno prima, con un gruppo di “notturni” si vagava per le Prealpi in cerca di luoghi tranquilli, di questa voglia di vivere con la gente, stare con le persone, anche in modo occasionale e darsi appuntamento nei circoli di società operaie, fumare, bere un pessimo vino e giocare a frisbee sul piazzale di Cazzago Brabbia. Ormai era già finito il tempo del flowing power (the sound of inner peace): se in Woodstok aveva visto la sua nascita,le imitazioni in Italia, coi festival-pop, ne avevano scritto il necrologio. Quando diedi la mia prima festa nel 1979, la casa dei miei genitori era ancora in costruzione, e noi avevamo portato di soppiatto una chitarra una bottiglia di vino. Era il tempo di Radio Varese dove le puntine dei piatti si consumavano con le canzoni di Guccini, De Gregori,di Stefano Rosso, di Gianfranco Manfredi, Claudio Lolli e della prima Nannini, in cui trasmettevamo sulla modulazione di frequenza dei 100.700 “l’unica Radio libera dell’intero Occidente occupato”. A notte fonda eravamo sintonizzati sulla radio e cantavamo in maniera del tutto innocente quando sentimmo dei passi felpati farsi largo tra i calcinacci dell’impalcatura e vedemmo una luce sotto casa: era il lampeggiante della Polizia di Stato (che sarebbe stata una costante di molte delle nostre feste). Due poliziotti ci fecero mettere con le spalle al muro perché pensavano a dei balordi entrati abusivamente in un cantiere. Allora (non so se per fortuna o no) non esisteva ancora l’alcol-test e noi non eravamo certo dei balordi, ma ragazzi in cerca di nuovi spazi dove divertirsi. E se con gli agenti tutto fu chiarito in pochi minuti, coi miei debitamente informati, non fu proprio la stessa cosa. Qualche mese dopo però, ultimata la costruzione ebbi nuova casa e iniziò “l’era delle feste” e credo fosse il 1980, tutti rigorosamente senza scarpe, con una bottiglia di vino in mano e le stanze invase da enormi cuscini colorati e coi “fumini” indiani, demmo inizio ai ritrovi dove l’elemento centrale era il ballo e lo s-ballo. Era un modo per incontrarsi, ridere, festeggiare sempre qualche cosa, dimenticare qualche amarezza, trovare nuovi, e ogni occasione era buona per farlo. Qualche anno dopo, credo intorno al 1984, con mio padre che amava la terra e la musica, trovai in affitto, a pochi chilometri da casa, un luogo che mi aveva fatto scoprire il signor Franco Lavit, padre di Carlo e di Alberto, una cascina lombarda, appena fuori della città, che si ergeva tra filari di vite e una vista mozzafiato sul lago e sulle Alpi. Non avrei mai creduto che, scendendo da via Faido, appena passato il ponticello delle FNM (Ferrovie Nord Milano), si aprisse un terreno libero dalle case e su panorama 360 gradi,che aveva sullo sfondo, oltre al lago di Varese e il bianco delle Alpi Pennine, l’imponente il massiccio di sua maestà il Monte Rosa e in alcuni giorni ventosi anche la cima del Monviso. Vista oggi messa a duro sguardo dall’orrifica copertura della pista di atletica. Un pugno negli occhi, ma questo fa parte degli scempi italiani e anche Varese ne ha ben donde. Ben presto la casa colonica a due piani, un tempo abitata dai contadini, diventò un luogo ben frequentato, soprattutto il fine settimana dalla miglior gioventù varesina intorno a un tavolo con pane e salame e un buon bicchiere di vino. Non avevo la televisione, né il telefono, non c’era un campanello, ma un cancello a cui si si doveva fare molta attenzione ai simboli: se era aperto si poteva entrare, se era semiaperto ci si doveva fermare poco, se era chiuso significava che il padrone di casa non c’era o era “impegnato”. Certo, durante la settimana la vita era molto privata, ma se passava qualcuno ed io non c’ero l’abitudine era di lasciare un messaggio su un blocchetto di carta appeso alla porta. Ma ad iniziare dal venerdì pomeriggio fino alla domenica sera si contavano decine di accessi e non c’era quasi più privacy né il giorno né la notte.Al di là degli incontri della cantina e quelli conviviali, le feste erano sostanzialmente di tre tipi: la prima assolutamente godereccia e più contenuta dove ci si ritrovava per mangiare e gustare vini pregiati, la seconda, per qualche ricorrenza tipo le feste di compleanno, la terza, che divenne poi la più duratura nel tempo, era quella che organizzavo il X agosto per i poeti, in omaggio alla poesia di Pascoli, festa che dura ancora in forma itinerante sul territorio prealpino.Alcune voci della corte contadina del Faido non sapendo cosa dedurre da quel via vai vociferavano che nella mia casa accadessero cose “strane”, se per stranezza ovviamente si intendeva interrompere le liti di cortile, dare vivacità al borgo, e introdurre l’elemento festoso in contesti a volte degradati e poveri.

Era iniziato, senza saperlo, un periodo storico in cui addirittura si era formato un “Comitato festeggiamenti”: un gruppetto di amici che si occupava esclusivamente alla preparazione delle feste che avrebbero poi dato vita ai soci della cantina. Ne faceva parte Dundo, Vito, Sandro, Mastro, Luca, Gianfranco, e il sottoscritto, a cui, nel tempo, se ne aggiunsero altri, come Roberto, Alberto, il Doc, il Talamo, il Belli, il Michele. Tutte stelle comete che lasciavano la loro scia di buonumore e allegria e poi sparivano nella grande volta celeste delle notti della contea del Faidus.

Con la scusa di fare il vino, insieme al Dundo, che era il cantiniere capo, ci si trovava periodicamente a discutere di metabisolfiti, di politica e di femminismo. Ben presto le nostre vendemmie diuva pessima quasi sempre assediata dalle nebbie, e dalle brume del lago, imbolsite di peronospora, di oidio, e dibotrite, si trasformarono in vere e proprie sagre di rione. C’erano macchine ovunque: i vicini per quanto distanti iniziavano a lamentarsi ma avevamo creato dei parcheggi nei prati mettendo dei veri e propri posteggiatori ingaggiati tra i più giovani della corte così abbiamo messo a tacere i più brontoloni. E se da una parte avevamo ottenuto il risultato più importante dall’altra spesso gli ospiti finivano dentro plaghe di melma e ci voleva il trattore del Giuliano, figlio del Terzo, per tirarli fuori. Alle feste vi partecipavano dalle cento alle trecento persone e la maggior affluenza era soprattutto d’estate quando si poteva star fuori. Si organizzavano anche dei veri e propri concerti, con tanto di pedana in legno costruita dal mitico Euro, re incontrastato dei gipsy king, sulla quale si esibivano personaggi anche noti, come i Volpini Volanti, Vittorio Cosma, il mitico Bongo degli Atrio, e Franco mio vecchio amico suonatore di armonia a bocca e il gruppo nascente di Lorenzo, fratello di Vito, che suonavano fino al mattino con una band di almeno otto elementi. Alla musica classica con chitarra e voci i mitici Luca e il Renatino, un po’ fighetti, ma che nel loro genere deimigliori cantautori davvero imbattibili. Ai piccoli “pompieri del Faido”che erano i bambini a cui avevamo dato il compito di tirar su, quasi ecologisti antesignani,i mozziconi di sigaretta, avevamo dato loro anche il compito di spegnere eventuali incendi dovuti a distratti e maleducati ospiti. Li compensavamo semppre una piccola mancia. Alberto il Motola detto il comasco segnava le migliori gags e poi le “usciva” al momento più appropriato. Non sono mancati episodi boccaceschi, al limite del raccontabile come il dente venuto via durante un “gioco di società”, e incollato nel cuore della notte in modo mirabolante e con materiali di “fortuna”.

Altra caratteristica era il variegato panorama dei partecipanti alle nostre feste, vi arrivavano veramente di tutte le categorie o estrazione sociale, dai camionisti ai più altolocati funzionari dello stato, dai professionisti ai muratori,giudici di tribunali, dagli imbianchini agli avvocati più famosi, dagli analfabeti ai più esperti di polveri da sparo, dagli artisti più affermati ai cardiochirurghi, dal sottobosco della cultura sub-locale agli scrittori e poeti più famosi, e poifarmacisti,veterinari, pittori, scultori, pubblicitari, vetrinisti, commesse, architetti, ecologisti,produttori televisivi, negozianti, artigiani del cuoio e della pelle, banditi, fuorilegge, presidenti, direttori, esattori delle tasse, giocatori d’azzardo, modelle, sacerdoti, deputati, senatori, droghieri, venditori di almanacchi, enologi e disfattisti, muratori, autisti, ingegneri, ecografisti, dietologi, scribacchini e giornalisti (anche blasonati e mai prezzolati) politici e presunti tali, tanto per citare solo alcune categorie, ma devo dire che le figure più frequenti sono state i poeti e la “grande bellezza”. E poi tanta musica compagna del Faido in tutte le stagioni, pressata alle pareti all’inverosimilela cui distorsione di una straordinaria esibizione da far crollare il plafone del soffitto, cosa avvenuta davvero qualche anno dopo, e una tragedia appena sfiorata da annunciare che la gioventù era finita. Altra caratteristica, erano le firme lasciate sui muri fino al soffitto come accade in tanti locali a partire nella Bodeguita del Medio all’Avana di Cuba, da chi partecipava ai vari festeggiamenti così da creare un vero e proprio affresco di vita vissuta da una gioventù a cui bastava davvero poco, lasciare numeri di telefono e impressioni, per creare un volano di nuove occasioni.

Tutto durò fino quasi alla fine degli anni Novanta quando trovai moglie e misi la testa a partito (forse): le feste finirono, ma non il fascino di questi luoghi di cui mi ero talmente innamorato da andarci a vivere con la mia famiglia, non prima di una dolorosa demolizione che avvenne nel 2008 e di una “disinfestazione” del posto con ulivo benedetto e benedizioni ultraterrene. Poi quasi fosse un’ultima – ma non ultimissima – festa, con tanto di prete vero, ho consacrato quel posto magico che è il Faido rinnovato e a misura famigliare. Quel tipo di feste, forse perché erano diventate faticose, forse perché l’unica alternativa erano quelle mitiche in casa Ranza, nessuno aveva più voglia di organizzarle. O più probabilmente perché la sindrome di Peter Pan era quasi svanita anche se non ancora del tutto, segno che si era diventati grandi. Il luogo è stato comprato, restaurato da Carlo figlio di Franco Lavit, e anche da Renato, riscaldata dal Renzo, ma con il medesimo spettacolare panorama di sempre. Noi delle vinicola-Faido abbiamo così sciolto il Comitato e costituito la “Cremeria” nella taverna del Sandro e del Luca e delle reciproche moltitudini, dove ci troviamo ogni domenica sera da più di vent’anni, a vedere le partite e gustare i piatti pensati dal Vito che niente hanno da invidiare ai moderni e inflazionati Cannavacciuolo o Cracco. Una appuntamento rigorosamente riservata agli uomini dove le partite di calcio fanno solo da sfondo alla goliardia che prevale su tutto. E il vino migliore è quasi sempre del Fiori, perché è quello che lui vende e ce lo beviamodiscutendo di politica e degli acciacchi del tempo in attesa della festa finale come nella Champions League.

Così va la vita, qualche volta vengono ancora al Faido in delegazione a rinverdire gli antichi fasti e a bere e ridere ancora ma si va a letto sempre più presto al punto che la festa del capodanno 2020 l’abbiamo festeggiata alla Trattoria di Iller alle 12.30, alla Baraggia, dopo una passeggiata di quasi 10 km che dal circolo di Mentasti ci ha portato in un bucolico scenario invernale fin quasi alle sorgenti del fiumiciattolo della Bevera.

Il mattino mi ero svegliato un po’ tardi. La sera con mia moglie eravamo stati in Svizzera a cena da amici a festeggiare l’arrivo del nuovo anno. In fondo oltre a essere il primo giorno del 2020, l’1 gennaio anche il mio compleanno, e passeggiando sono andato a vedere la cascina poco distante dove mio figlio aveva organizzato festa con i suoi amici della SEV (Scuola Europea Varese o meglio ESVA Eurepean School Varese) con gli stessi canoni e criteri di quelle che organizzavamo noi. C’erano ancora almeno dieci ragazzi che dormivano dentro sacchi a pelo alla bell’è meglio e molte bottiglie sparse qua e là dappertutto. Tutti appena svegli si sono messi a pulire e poi hanno giocato al pallone. Ragazzi di oggi feste di domani. Della mostra e dell’articolo non ho saputo più nulla, e il 2020 potrebbe essere l’anno che verrà. E festa sia allora Buon Anno a tutti.

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