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Artemixia

I VETRI DI VIA FONDAZZA

LUISA NEGRI - 23/04/2021

Giorgio Morandi, Cortile di via Fondazza

Giorgio Morandi, Cortile di via Fondazza

Ogni sala di Morandi ci fa pensare a quei pittori che nella loro vita non hanno mai incontrato nessuno e che hanno visto svolgersi la vita degli altri uomini e delle cose attraverso i vetri della finestra. Morandi è il pittore degli intellettuali isolati che prendono freddo: è il santino attaccato al muro al quale ci si rivolge nei momenti di sconforto: è il pittore dei toni freddi e calmi, appena rotti dal colore in falsetto”.

Il giudizio critico, espresso da Raffaele De Grada, compariva sull’Unità all’inizio degli anni Cinquanta. Ed era indicativo di quanto l’ideologia comunista si sovrapponesse a una corretta interpretazione del lavoro di artisti che non fossero più che aderenti al Realismo richiamato da Togliatti e compagni. Peggio ancora se avevano a tratti goduto, come era accaduto anche a Morandi, della considerazione positiva del regime fascista.

Spingendosi oltre le rutilanti celebrazioni di artisti asserviti, osservanti dei riti richiesti ridondanti di classicismo e degli antichi fasti, il fascismo aveva scorto nell’apparente quietezza delle tavole morandiane, nella domesticità rassicurante dei paesaggi familiari e degli oggetti raccontati -vasi, fiori, tazze, bottiglie, imbuti o caraffe- un limbo accogliente. Dove nessuna contestazione o divergenza ideologica potesse sembrare sottesa.

De Grada non era stato obbiettivo nel suo giudizio. Non era certo artista, Giorgio Morandi (1890-1964) che non avesse incontrato nessuno nella sua vita. Anche se poteva essere vero che aveva visto svolgersi- meglio sarebbe dire aveva osservato- la sua vita e quella degli altri da una finestra della casa bolognese di via Fondazza. Ma quella finestra, nella piccola camera da letto che gli faceva anche da studio- ne ebbe infine uno tutto suo, nella dimora estiva di Grizzana, a pochi anni dalla morte- era come la macchina da presa del regista. Che registrava luci e ombre, polvere e storia, vita e morte, silenzi e strappi di rumori, sfioramenti di stoviglie e sospiri di vento.

Non è un caso che Fellini e Antonioni avessero proposto nel 1960 nei loro film, rispettivamente La dolce vita e La notte, la visione delle opere dello stesso Morandi. Dietro quella finestra di Morandi sono passati anni e storie. In primis la sua storia, quasi riflessa nel vetro. Il perfetto autoritratto lo ha lasciato lì, come lo avesse inciso, da ottimo incisore quale era- tra i migliori d’Europa del Novecento-nel fondo trasparente di quella lastra contornata dall’incontro, quasi una croce, dei legni del telaio.

L’artista era intellettuale consapevole sì del suo ruolo di appartato, solitario pensatore. Ma non lo si può dire isolato uomo. Non certo isolato dall’ esistenza degli altri come De Grada aveva insinuato. Perché Morandi, dal chiuso di quella sua stanza, sapeva e intuiva tutto degli altri, amici e nemici, colleghi e collezionisti, estimatori e detrattori. E sapeva della morte e della vita.

La morte l’aveva incontrata, vis a vis, tra le pareti di casa, per ben due volte: quella precoce del padre, Andrea, e quella del fratello, il piccolo Giuseppe. E sapeva cos’era la guerra, avendone viste due da vicino, soprattutto la prima grande guerra, affrontata in divisa da granatiere, data la sua alta statura. Salvato poi forse da un malanno che lo aveva prostrato e rispedito a casa.

Aveva conosciuto ancora prima la povertà, sofferta in dignità con la famiglia, la madre e le sorelle Maria Teresa, Dina e Anna: finché il suo lavoro non ebbe ragione della scelta fatta fin da sempre, seguendo gli studi d’arte per passione. Le tele dipinte sui due lati, i colori usati in quantità modica, sono dati significativi di una necessità che spinge, aiutandolo a fare di una carenza un’arte suprema, raffinata. Dove le lezioni dei suoi maestri prediletti, il contemporaneo Cézanne ma molto prima Giotto e Masaccio, Piero della Francesca e Paolo Uccello saranno negli anni sempre più sottese: nella pienezza della luce sovrastante il colore, come nell’ombra che s’allunga dai nitidi oggetti e va dissolvendosi in magia narrativa.

È proprio quella finestra morandiana -da De Grada ritenuta motivo di isolamento- a farci pensare come oggi, più che mai, la sua mistica pittura ci riguardi da vicino.

In questo momento siamo un po’ tutti come l’artista isolato dietro ai vetri di via Fondazza.

Se dovessimo scegliere un pittore di questo nostro tempo ‘sospeso’, come diciamo tutti, dovremmo cercarlo proprio in Giorgio Morandi, nelle sue opere. Particolarmente quelle che segnano il percorso tra gli anni della guerra e del dopo- che sembrano uscite dal nostro presente- dove i colori polverosi degli oggetti e le luci che li inondano mutano senza sosta al lento trascorrere delle ore e dei giorni.

Ben se ne accorgevano i suoi collezionisti, che alla fine degli anni Quaranta cominciarono a richiedergliele, consci più che mai che quella sua domestica, intimistica e riservata arte tendesse al sublime, perché dentro c’era tutta la vita nella sua interezza magnifica e devastante. E che al di là della tragedia trascorsa, su quelle macerie non ancora rimosse, grazie a lui si intravedevano i primi sprazzi di luce.

Come disse un collega alla Quadriennale del ’48 osservandone una delle ultime opere “ Giorgio dipinge ora chiaro chiaro, bianco. Alla polvere del tempo s’è sostituita nei suoi quadri la polvere azzurrina che sollevano lungo la strada provinciale i camion d’estate”.

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