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Attualità

LA DIFFICILE EUROPA

EDOARDO ZIN - 24/06/2016

europaDopo la vittoria di Brexit, ecco le turbolenze catastrofiche sui mercati finanziari e, di riflesso, sull’economia non solo europea.

L’assassinio della deputata laburista Jo Cox (“protomartire” di un conflitto che ha intossicato gli animi dei pur flemmatici cittadini britannici e che avvelenerà ancor più la destra populista mondiale) aveva cinicamente fatto migliorare le borse finanziarie (oltre che divulgato il sarcasmo dimostrato da uno sprezzante titolo di un quotidiano italiano!) e dimostrato come i liberi mercati segnalino sì gli squilibri di un’economia, ma soprattutto si avvalgano della speculazione in cui trova sfogo una finanza selvaggia.

Tutto ciò dimostra ancora una volta di più che attualmente il processo di costruzione europea è dettato da forze tecno-finanziarie, le quali non possono funzionare quando si deve affrontare l’opinione democratica.

La visione dell’Europa dei padri fondatori nel dopoguerra – fondata sulla solidarietà, sussidiarietà e sovranazionalità – oggi è appannata da leader europei che, anziché guidare le opinioni pubbliche, se ne fanno condizionare, quando non le incitano verso la scissione o addirittura alimentano profonde paure.

Se, durante la campagna referendaria britannica, ci ha colpito questa visione tecnocratica dell’integrazione europea, non di meno ci ha impressionato la mancanza di motivi un po’ più nobili che giustifichino la presenza nell’Ue del Regno Unito (Inghilterra, Galles, Scozia) e Irlanda del Nord.

Alcune considerazioni e dati storici ci potranno fare comprendere come la Gran Bretagna sia sempre stata molto diffidente nell’abdicare porzioni di sovranità nazionale per condividerle con altri paesi e come abbia sostenuto con scarsa fiducia gli impegni presi.

Già Winston Churchill, il primo ministro britannico che portò il suo Paese alla vittoria contro le truppe naziste, nel settembre del 1947, a Zurigo, parlò di Stati Uniti d’Europa da fondarsi sull’intesa franco-tedesca, ma solamente “ sanzionata dall’amicizia” del suo Paese, ancora orgoglioso delle enormi possibilità economiche provenienti dalle sue colonie.

Quando queste cominciarono a dimostrare segni d’inusuale indipendenza e dopo la nascita della prima Comunità europea, un parte dei cittadini britannici iniziò a comprendere come fosse necessario uscire dallo “splendido isolamento” che sempre aveva caratterizzato la politica del Regno Unito.

Lo aveva ben compreso Robert Schuman che nel 1963 aveva scritto: “L’Inghilterra non accetterà d’inserirsi in Europa se non costretta dagli avvenimenti”. Un governo britannico non sarebbe mai stato disposto a concedere a un organismo sovranazionale maggiore sovranità di quanta ne godessero i paesi delle sue colonie e avrebbe continuato a diffidare degli altri partner.

Ma la storia camminava a passi veloci e la Gran Bretagna, dimenticando la sua certezza fondata sulla tradizionale politica isolazionista e incalzata dagli scacchi ricevuti in politica estera ed economica, presentò, nel 1970, domanda di adesione alla Comunità europea.

I negoziati durarono due anni spesi in trattative con l’intento, non dichiarato, di voler misurare da subito la resistenza degli altri ( allora! ) sei paesi. Le questioni del negoziato divennero monotone: i ritmi di adattamento della politica agricola, il disarmo tariffario, i finanziamento delle politiche comuni, l’introduzione delle tariffe doganali verso i paesi non aderenti alla Cee, l’estensione agli altri paesi membri delle risorse proprie…

Il 1°gennaio 1973 Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda entrarono a far parte della Cee, mentre la Norvegia, che pure aveva presentato domanda di adesione, dopo un referendum, rifiutò. Gli storici del futuro individueranno con l’ammissione di una potenza vocazionalmente avversa a qualsiasi tipo di unificazione europea l’inizio, se non della fine, della decadenza dello spirito europeo.

Funzionari britannici entrarono nelle istituzioni europee e s’incominciò a distribuire incarichi secondo il peggiore “manuale Cencelli”. L’inglese soppiantò il francese come lingua veicolare, mentre gli inglesi imperterriti si rifiutarono di esprimersi con la lingua di Chateaubriand.

Dopo solo un anno, il governo britannico chiese di rinegoziare l’adesione, ma la maggioranza dei cittadini britannici tramite un referendum si pronunciò per il mantenimento nella Cee.

Nel 1977 il laburista Roy Jenkins , divenuto presidente della Commissione, tentò un rilancio del processo di unificazione, ma la scarsa propensione del suo paese ad accelerare la costruzione europea lo costrinse ad accentuare la gestione ordinaria a scapito di quella da lui proposta.

E nel 1979 arrivò Margaret Thatcher, nemica dell’interventismo statale in ogni settore e ancor più contraria a cessioni di sovranità alla Comunità. Durante il suo decennio di governo, la “signora di ferro” rivendicava “want my money back” (“vorrei che i miei soldi mi ritornasse indietro”). Politici, diplomatici, funzionari europei, durante interminabili vertici, lavorarono assiduamente per raggiungere compromessi, rivedere trattati, concedere deroghe pur di trovare accordi che potessero soddisfare i britannici: fu un periodo di grande e aspro confronto politico.

Mentre la Gran Bretagna viveva tra aperto dissenso con gli altri paesi e con profonde lacerazioni al suo interno, l’Europa continuava, tra luci e ombre, il suo cammino finché entrò in circolazione la moneta unica. La Gran Bretagna preferì mantenersi la sua sterlina, anche se il premier Blair tentò un disegno politico costruttivo e realistico nei riguardi del processo d’unificazione, ma l’opinione pubblica britannica, esclusa quella scozzese, diventava sempre più euroscettica.

Nel febbraio scorso, il premier Cameron, al fine di porre freno ai movimenti antieuropeistici, chiese all’Unione un ulteriore negoziato che, senza eccessi, liti, clamori finì per interpretare a favore del Regno Unito alcune disposizioni dei trattati al fine di evitare il referendum di giovedì scorso.

I governi degli altri Paesi membri, sfibrati anch’essi dal fenomeno migratorio, dal terrorismo e dalla crisi economica, anziché serrare i ranghi per combattere assieme questi eventi preferirono – e preferiscono – la deriva attraverso la dimensione intergovernativa a scapito di quella sovranazionale.

Ora niente potrà essere come prima. I governi non potranno più difendere strenuamente la propria sovranità, a meno che non vogliano un giorno maledire le conseguenze di una disgregazione di cui esse oggi difendono le cause.

Politologi, economisti, politici, imprenditori hanno commentato dai diversi punti di vista di loro competenza questo atto libero di un popolo. Da parte nostra desidereremmo mettere in evidenza le cause storiche che portarono il Regno Unito a chiedere l’ingresso, nel 1973, nell’allora Comunità Europea.

Tali aspetti, infatti, dimostrano come il Regno Unito sia sempre stata molto diffidente nell’abdicare   porzioni di sovranità nazionale per condividerle con altri paesi e sostenitrice di scarsa fiducia verso gli altri partner nell’osservare gli impegni presi.

I padri fondatori dell’attuale Unione Europea avevano nell’immediato dopoguerra un’alta visione dell’integrazione europea che doveva assicurare pace e benessere al vecchio continente. Winston Churchill, il primo ministro britannico che portò il suo paese alla vittoria contro le truppe naziste, nel settembre del 1946, a Zurigo, parlò di Stati Uniti d’Europa da fondarsi sull’intesa franco-tedesca, ma   solamente   “sanzionata” dall’amicizia del suo paese, ancora orgoglioso delle enormi possibilità economiche delle sue colonie.

Quando il Commonwealth incominciò a dimostrare segni di inusuale indipendenza e dopo la nascita della prima Comunità Europea, una parte dei cittadini britannici iniziò a comprendere come fosse necessario uscire dallo “splendido isolamento” che sempre aveva caratterizzato la politica dell’impero di Sua Maestà.

Lo aveva ben compreso Robert Schuman che scrisse.” L’Inghilterra non accetterà d’inserirsi in Europa se non costretta dagli avvenimenti”. Un governo britannico non sarebbe mai stato disposto a concedere a un organismo sovranazionale maggiore sovranità di quanta ne godessero i paesi delle sue colonie.

Ma la storia camminava a passi veloci e la Gran Bretagna, dimenticando la certezza fondata sulla sua tradizionale politica isolazionista e incalzata dagli scacchi ricevuti in politica estera ed economica, presentò, nel 1970, la domanda di adesione alla Comunità Europea. I negoziati durarono due anni spesi in trattative con l’intento, non dichiarato, di voler misurare da subito la resistenza degli altri allora sei paesi. Le questioni del negoziato erano quelle che diventarono monotone: i ritmi di adattamento alla politica agricola, il disarmo tariffario, il finanziamento delle politiche comuni, l’introduzione delle tariffe doganali verso i paesi non aderenti alla Comunità, l’estensione agli altri paesi membri delle risorse proprie.

Il 1° gennio 1973 la Gran Bretagna, la Danimarca e l’Irlanda entrarono a far parte della Comunità, mentre la Norvegia, che pur aveva presentato domanda di adesione, dopo un referendum, rifiutò.

Funzionari britannici entrarono nelle istituzioni europee, l’inglese soppiantò il francese come lingua veicolare, ma l’anno successivo il nuovo governo britannico chiese di rinegoziare l’adesione e nel 1975, con un referendum, la maggioranza britannica si pronunciò per il mantenimento nella Cee: nel 1977 il britannico Roy Jenkins, divenuto presidente della Commissione, tentò un rilancio, ma la scarsa propensione del suo paese ad accelerare la costruzione europea lo costrinse ad accentuare la gestione ordinaria a scapito di quella di proposta.

Nel maggio 1979, le elezioni britanniche videro l’affermazione del partito conservatore, il cui leader, Margaret Thatcher, divenne premier. Nemica dell’interventismo statale in ogni settore, era altresì contraria a cessioni di sovranità in favore della Cee. Nel suo decennio di governo, la “signora di ferro” rivendicava “I want my money back” (“vorrei che i miei soldi mi ritornassero indietro”). Funzionari europei, diplomatici, politici riuniti in vertici interminabili lavorarono assiduamente per raggiungere compromessi, rivedere trattati, concedere deroghe pur di trovare accordi che soddisfacessero i britannici: fu un periodo di aspro e grande confronto politico.

Mentre la Gran Bretagna viveva tra aperto dissenso con gli altri partner e contestazioni al suo interno, la Comunità europea proseguiva nel suo cammino tra luci ed ombre: si eleggeva il Parlamento europeo a suffragio diretto, altri paesi entravano nella Comunità e altri chiedevano di avviare le procedure per l’adesione, entrava in vigore l’unione monetaria, si modificava a Maastricht il Trattato sull’Unione europea, si sviluppava una coscienza europea tra i giovani Erasmus, entrava in vigore l’euro, ma la Gran Bretagna preferì mantenersi la sterlina, anche se il nuovo premier Blair tentò un disegno politico costruttivo e realistico nei riguardi dell’Europa, ma l’opinione pubblica britannica non cambiò idea circa il suo euroscetticismo.

Contemporaneamente l’Unione era sempre più apertamente in bilico tra struttura quasi federale e deriva verso la dimensione intergovernativa: i condizionamenti nazionali caratterizzavano i consigli europei, i leader nazionali, invece che guidare le proprie opinioni pubbliche, se ne facevano condizionare.

L’Europa veniva scossa, al suo interno, dall’ondata di terrorismo e dalla massiccia immigrazione a cui controbattevano masse populiste urlatrici, estremiste, radicali. Il governo britannico, nel febbraio scorso, al fine di arginare un ulteriore referendum per decidere se restare nell’Ue tentò di porre freno ai movimenti euroscettici chiedendo un ulteriore negoziato che, senza eccessi , liti, clamori finì per interpretare certe disposizioni dei trattati, evitando di modificarle,   a favore della Gran Bretagna.

Non è bastato ed ecco il referendum del 23 giugno.

Fin qui la storia. Che succederà ora? Non lo sappiamo. I britannici hanno votato. Ne devono trarre tutte le conseguenze. L’esito del referendum ci insegna soprattuttp che senza valori comuni fondamentali (solidarietà, sovranazionalità, rispetto delle regole comuni, ricerca del bene comune europeo…) l’Europa perirà. La maggiore integrazione non è un obbligo, è una proposta. Essa dipende da due fattori: sovranazionalità e fiducia reciproca. La scelta ora spetta ai governi degli Stati membri che devono risponderne ai cittadini e alla storia.

Diceva il celebre predicatore francese Bossuet: “Dio si fa beffe degli uomini che maledicono le conseguenze di fenomeni di cui difendono le cause.”

Politologi, economisti, politici, imprenditori hanno commentato dai diversi punti di vista di loro competenza questo atto libero di un popolo. Da parte nostra desidereremmo mettere in evidenza le cause storiche che portarono il Regno Unito a chiedere l’ingresso, nel 1973, nell’allora Comunità Europea.

Tali aspetti, infatti, dimostrano come il Regno Unito sia sempre stata molto diffidente nell’abdicare   porzioni di sovranità nazionale per condividerle con altri paesi e sostenitrice di scarsa fiducia verso gli altri partner nell’osservare gli impegni presi.

I padri fondatori dell’attuale Unione Europea avevano nell’immediato dopoguerra un’alta visione dell’integrazione europea che doveva assicurare pace e benessere al vecchio continente. Winston Churchill, il primo ministro britannico che portò il suo paese alla vittoria contro le truppe naziste, nel settembre del 1946, a Zurigo, parlò di Stati Uniti d’Europa da fondarsi sull’intesa franco-tedesca, ma   solamente   “sanzionata” dall’amicizia del suo paese, ancora orgoglioso delle enormi possibilità economiche delle sue colonie.

Quando il Commonwealth incominciò a dimostrare segni di inusuale indipendenza e dopo la nascita della prima Comunità Europea, una parte dei cittadini britannici iniziò a comprendere come fosse necessario uscire dallo “splendido isolamento” che sempre aveva caratterizzato la politica dell’impero di Sua Maestà.

Lo aveva ben compreso Robert Schuman che scrisse.” L’Inghilterra non accetterà d’inserirsi in Europa se non costretta dagli avvenimenti”. Un governo britannico non sarebbe mai stato disposto a concedere a un organismo sovranazionale maggiore sovranità di quanta ne godessero i paesi delle sue colonie.

Ma la storia camminava a passi veloci e la Gran Bretagna, dimenticando la certezza fondata sulla sua tradizionale politica isolazionista e incalzata dagli scacchi ricevuti in politica estera ed economica, presentò, nel 1970, la domanda di adesione alla Comunità Europea. I negoziati durarono due anni spesi in trattative con l’intento, non dichiarato, di voler misurare da subito la resistenza degli altri allora sei paesi. Le questioni del negoziato erano quelle che diventarono monotone: i ritmi di adattamento alla politica agricola, il disarmo tariffario, il finanziamento delle politiche comuni, l’introduzione delle tariffe doganali verso i paesi non aderenti alla Comunità, l’estensione agli altri paesi membri delle risorse proprie.

Il 1° gennio 1973 la Gran Bretagna, la Danimarca e l’Irlanda entrarono a far parte della Comunità, mentre la Norvegia, che pur aveva presentato domanda di adesione, dopo un referendum, rifiutò.

Funzionari britannici entrarono nelle istituzioni europee, l’inglese soppiantò il francese come lingua veicolare, ma l’anno successivo il nuovo governo britannico chiese di rinegoziare l’adesione e nel 1975, con un referendum, la maggioranza britannica si pronunciò per il mantenimento nella CEE: nel 1977 il britannico Roy Jenkins, divenuto presidente della Commissione, tentò un rilancio, ma la scarsa propensione del suo paese ad accelerare la costruzione europea lo costrinse ad accentuare la gestione ordinaria a scapito di quella di proposta.

Nel maggio 1979, le elezioni britanniche videro l’affermazione del partito conservatore, il cui leader, Margaret Thatcher, divenne premier. Nemica dell’interventismo statale in ogni settore, era altresì contraria a cessioni di sovranità in favore della CEE. Nel suo decennio di governo, la “signora di ferro” rivendicava “I want my money back” (“vorrei che i miei soldi mi ritornassero indietro”). Funzionari europei, diplomatici, politici riuniti in vertici interminabili lavorarono assiduamente per raggiungere compromessi, rivedere trattati, concedere deroghe pur di trovare accordi che soddisfacessero i britannici: fu un periodo di aspro e grande confronto politico.

Mentre la Gran Bretagna viveva tra aperto dissenso con gli altri partner e contestazioni al suo interno, la Comunità Europea proseguiva nel suo cammino tra luci ed ombre: si eleggeva il Parlamento Europeo a suffragio diretto, altri paesi entravano nella Comunità ed altri chiedevano di avviare le procedure per l’adesione, entrava in vigore l’unione monetaria, si modificava a Maastricht il Trattato sull’Unione Europea, si sviluppava una coscienza europea tra i giovani Erasmus, entrava in vigore l’euro, ma la Gran Bretagna preferì mantenersi la sterlina, anche se il nuovo premier Blair tentò un disegno politico costruttivo e realistico nei riguardi dell’Europa, ma l’opinione pubblica britannica non cambiò idea circa il suo euroscetticismo.

Contemporaneamente l’Unione era sempre più apertamente in bilico tra struttura quasi federale e deriva verso la dimensione intergovernativa: i condizionamenti nazionali caratterizzavano i consigli europei, i leader nazionali, invece che guidare le proprie opinioni pubbliche, se ne facevano condizionare.

L’Europa veniva scossa, al suo interno, dall’ondata di terrorismo e dalla massiccia immigrazione a cui controbattevano masse populiste urlatrici, estremiste, radicali. Il governo britannico, nel febbraio scorso, al fine di arginare un ulteriore referendum per decidere se restare nell’UE tentò di porre freno ai movimenti euroscettici chiedendo un ulteriore negoziato che, senza eccessi , liti, clamori finì per interpretare certe disposizioni dei trattati, evitando di modificarle,   a favore della Gran Bretagna. Non è bastato e il referendum del 23 giugno ha dato i risultati che tutti conosciamo.

Fin qui la storia. Che succederà ora? Non lo sappiamo. Una sola cosa ci sta a cuore: che non si ricorra all’ennesimo espediente pur di impedire la Brexit. I britannici hanno votato. Ne devono trarre tutte le conseguenze.

L’esito del referendum ci insegna che senza valori comuni fondamentali (solidarietà, sovranazionalità, rispetto delle regole comuni, ricerca del bene comune europeo…) l’Europa perirà. La maggiore integrazione non è un obbligo, è una proposta. Essa dipende da due fattori: sovranazionalità e fiducia reciproca. La scelta ora spetta ai governi degli Stati membri i quali devono risponderne ai cittadini e alla storia.

E’ ridicolo che i singoli stati difendano strenuamente la propria sovranità e poi piangano e critichino la Gran Bretagna che ha fatto un cattivo uso della propria sovranità. Occorre che corrano ai ripari al più presto!

Diceva il celebre predicatore francese Bossuet:” Dio si fa beffe degli uomini che maledicono le conseguenze di fenomeni di cui difendono le cause.”

 

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