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Attualità

PERCORSO DA RIPRENDERE

EDOARDO ZIN - 17/03/2017

trattatiIl 25 marzo di sessanta anni fa, sul colle del Campidoglio, si firmarono i Trattati che istituirono La Comunità Europea Economica (C.E.E.) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (C.E.E.A.): un altro di quei “piccoli passi” che avrebbero portato nel 1986 all’Atto Unico Europeo con la modifica di questi Trattati e la conseguente nascita della Comunità Europea e, successivamente, nel 1992 alla firma del Trattato dell’attuale Unione Europea.

La prima comunità europea – la C.E.C.A. (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) – era nata il 9 maggio 1950 quando il ministro francese egli Affari Esteri Robert Schuman aveva proposto ai paesi che vi avessero aderito non solo di “mettere in comune la produzione del carbone e dell’acciaio”, ma di aderire ad un’autorità sovranazionale, punto di partenza per un sistema politico senza precedenti, mai conosciuto nella storia.

In verità, tra il 1950 e il 1957, i sei paesi aderirono anche alla C.E.D. (Comunità Europea della Difesa), il primo seme che avrebbe dato luogo ad un esercito europeo e, conseguentemente, ad una politica estera comune, ma la mancata ratifica da parte dell’Assemblea Nazionale francese del trattato d’adesione, il 30 agosto 1954, fece fallire il progetto. Sedici giorni prima, il nostro Alcide de Gasperi si era spento nella quiete del suo Trentino con la spina nel cuore per aver intuito che la C.E.D. non sarebbe arrivata in porto.

Sembrò la fine del sogno europeo. Fu la prima sconfitta che subì l’Europa che  stava per nascere. Anche allora ci furono le Cassandre sovraniste che festeggiarono la morte dell’Europa. Ma l’Europa non era morta. Non poteva morire perché gli uomini di quel tempo erano appena usciti dalla barbarie di una guerra mondiale ed erano alla ricerca di una patria comune che si imponesse come necessaria per combattere il fanatismo dell’uomo contro l’uomo, dei nazionalismi, dell’odio del vincitore contro il vinto.

Fu allora che i sei paesi fondatori, sulla spinta dello statista belga ed europeista convinto Paul-Henri Spaak e del nostro ministro degli esteri Gaetano Martino, incominciarono, dapprima a Messina e poi a Venezia, a rilanciare il processo d’integrazione ed elaborarono un rapporto sulle possibilità di un’unione economica nonché di un’unione nel settore nucleare per scopi pacifici. E si arrivò alla firma dei Trattati di Roma.

Oggi la storia sembra ripetersi. Il Regno Unito è uscito dall’Unione. Con i mattoni che dovevano servire per costruire la casa comune si costruiscono i muri di nuove frontiere. Alla fase economica, che doveva servire per armonizzare le economie su cui fondare comuni politiche sociali e fiscali, è subentrata la fase del rigore di bilancio diretta da una finanza ultra-liberista. Se alla base della costruzione europea ci fu la conciliazione tra Francia e Germania, oggi ci si accapiglia per ospitare in maniera dignitosa donne e uomini che fuggono da guerre e dalla miseria.  La con-ciliazione non diventa com-prensione, cioè desiderio di prendere “con” sé i bisogni, le necessità, la richiesta di aiuto di un’umanità dolente. Se nell’immediata dopoguerra i paesi vinti non si ripiegarono su se stessi, ma trovarono la forza di camminare assieme ai vincitori, oggi paesi, fino a pochi anni fa soggetti alla barbarie di una dittatura, dimenticano troppo facilmente l’aiuto ricevuto dai paesi liberi e assumono l’atteggiamento di un arrogante sciovinismo in nome della salvaguardia della propria identità, che – al contrario – potrebbe essere meglio difesa dalla ricchezza della integrazione culturale e spirituale con altri paesi.

Commemorare non basta. Abbiamo bisogno di un’Europa che superi gli accordi: di un’Europa dello spirito che oltrepassi il legalismo, la contabilità ragionieristica.  Abbiamo bisogno di un’Europa che guardi con speranza al futuro e sia capace di rinnovarsi di giorno in giorno in un incessante lavoro di decostruzione e di ricostruzione.

Ogni paese custodisca la sua ricchezza storica, la sua identità, la sua cultura, ma, specialmente in questa fase storica, si apra agli altri. I gretti nazionalismi si possono saldare con i populismi e trovare capri espiatori fra i migranti, i profughi, l’Islam.

Chi guarda all’Europa con scetticismo, con ipercriticismo, con cinismo e spesso con ignoranza sappia, al contrario, unirsi a color che vogliono ricucire le fratture: il rischio di vivere in solitudine condanna l’uomo alla disperazione e i paesi al dramma del fallimento storico.

L’Europa riprenda con coraggio a portare a termine il suo lungo, anche se tentennante, processo di unificazione politica, rigenerandosi in una federazione di stati nazionali. Le sfide che ha davanti a sé sono principalmente tre: la lotta al terrorismo (ah, se ci fosse un esercito comune bocciato dall’egoismo beffardo nel ’54!), un’ articolata e controllata politica dell’emigrazione e il rilancio dell’economia.

Oggi sono più che mai attuali le parole che Robert Schuman pronunciò pochi mesi prima di morire: ”A tutte le idee distruttrici che ci hanno tramandato nel passato, occorre sostituire il sentimento della solidarietà, cioè la convinzione che il vero interesse di ciascun paese consiste nel riconoscere e nell’accettare in pratica l’interdipendenza di tutti. L’egoismo non paga mai”.

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