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Stili di Vita

LEGGENDA DA SFATARE

VALERIO CRUGNOLA - 14/06/2019

risentimentoÈ tempo di tirare le fila. Secondo Mounk il nemico della democrazia liberale non è la paura o il risentimento, ma la sfiducia. Le istituzioni riconquisteranno fiducia se i governi faranno spazio ai legittimi interessi negati dei ceti subalterni estrusi negli ultimi decenni dalla rappresentanza e dai diritti sociali. «Il predominio economico delle democrazie occidentali sta svanendo in fretta, ma le delusioni materiali subite dai cittadini sono causate anche da una distribuzione iniqua dei guadagni della globalizzazione, non solo della stagnazione economica». Implicitamente, la via da seguire è un risanamento economico che susciti più uguaglianza, più equità, più diritti e più tutele per il lavoro. Ci piaccia o no, per raggiungere questi obiettivi nelle condizioni di emergenza in cui ci troviamo, servono più controlli e più regole senza doverci appesantire di burocrazia e di burocrati. Ogni strumento di cui disponiamo, dagli organismi sovranazionali agli enti locali, dalle imprese ai movimenti sindacali, dall’associazionismo al terzo settore fino ai comportamenti quotidiani di ciascuno, andrà rivolto in questa direzione. Nel ‘900 abbiamo constatato gli esiti distopici, i costi e i rischi degli apparati statali e dei mercati senza regole e fuori controllo. Oggi una salutare iconoclastia può liberarci dall’idolatria dello Stato e del Mercato e sgombrare i nostri neuroni dalla gravosa polarità radicalismo vs moderatismo.

Le speranze collettive si sono spente. Il mondo attuale ci obbliga a grandi apprensioni. A volte si nutrono speranze per pura disperazione. Si cade nella nostalgia del passato quando non è dato immaginare un mondo migliore. L’ascesa del populismo si contrasta prefigurando un domani migliore. Rinunciando a domare il mercato e a tutelare i diritti sociali, la democrazia liberale – conclude Mounk – si è inflitta del male da sola. Indebolita negli anticorpi e nelle difese immunitarie, si è fatta sorprendere dagli effetti congiunti della globalizzazione, dell’automazione, della prolungata recessione e delle piattaforme digitali. Alla spazialità orizzontale, incentrata sulla dialettica conservazione-riformismo disciplinata da valori condivisi, è subentrata la spazialità verticale, fondata sulla delegittimazione reciproca e su una nobilitazione della disuguaglianza che alla polarità di fatto esclusione/inclusione sostituisce la logica estrusione/intrusione.

La spaccatura intervenuta tra metropoli e aree marginali ci pone in un’imprevista condizione di fragilità. Il fenomeno populista ha basi periferiche: esprime in un voto di protesta il decentrarsi del disagio sociale. Il suo emergere ha messo in conflitto due mitologie. Timothy Snyder ne descrive gli effetti devastanti in La politica e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, Rizzoli 2018. Snyder è uno storico dell’Europa orientale di formazione liberale, non proprio un esponente di quella “sinistra-sinistra” che ossessiona le notti degli ultimi mohicani del centrismo. Il liberismo, veicolo dell’elitismo, fa leva sulla «politica dell’inevitabilità»; il culturalismo identitario, veicolo del populismo, fa leva sulla «politica dell’eternità». Siamo costretti a scegliere tra assecondare il dio mercato o chiuderci nel feticcio identitario, o abbiamo una via d’uscita alternativa a questi due vicoli ciechi? Questa domanda è ripresa da Marco Revelli in un libro non sempre utile, Politica senza politica, Einaudi 2019. A suo parere il populismo dell’epoca postpolitica del XXI secolo nasce come una doppia «rivolta» degli inclusi: contro delle élites inafferrabili che li hanno messi ai margini e contro gli esclusi percepiti come un’oscura minaccia ai loro residui privilegi di status – quell’«un po’ meno» che fa la differenza.

La società postindustriale ha moltiplicato i bisogni immateriali, specie quelli connessi alla soggettività, senza soddisfarli adeguatamente; nel contempo le trasformazioni economiche incontrollate hanno lasciato scoperti i bisogni materiali dei più. La maggioranza della popolazione mondiale si è impoverita. I giovani sono privi di un futuro desiderabile. Gli indicatori economici astratti ci raccontano di una crescita globale. Ma nella percezione dei più la diseguaglianza si traduce in una decrescita infelice. L’ingiustizia sociale mina la democrazia liberale. Forse potremo salvarla agendo con urgenza per riformare la politica economica nazionale e internazionale, «attenuare le disuguaglianze e tenere fede alla promessa del rapido aumento degli standard di vita». «Una distribuzione più equa della crescita economica non è solo una questione di giustizia distributiva; è una questione di stabilità politica».

Oggi lo sviluppo non dipende tanto dalla trazione anteriore delle imprese, quanto e soprattutto da quella posteriore delle rivendicazioni dei lavoratori dipendenti nel settore privato e delle piccole imprese. Se guardiamo al passato, sulla carta questa prospettiva rivaluta gli effetti benefici dell’enorme spinta redistributiva intercorsa in Europa occidentale tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 e contesta la rivincita delle medie e grandi imprese fordiste consumatasi negli anni ’80. Questa è la via. Ma dove e come possiamo imboccarla?

Quella spinta di emancipazione democratica venne da un’imponente fase espansiva che oggi non c’è. Lo sviluppo a trazione posteriore incontra due ulteriori difficoltà. Dove sono i soggetti organizzati che possono interpretare questa spinta redistributiva? E come possiamo ridurre la frammentazione sociale e promuovere l’emancipazione del lavoro in un’epoca di automazione spinta, di delocalizzazione, di decentramento e di evanescenza di qualunque normazione nei rapporti di lavoro? Un conto è formulare una prospettiva strategica; un altro è indirizzarla nell’alveo di spinte effettive, compatibili anche quando conflittuali con un quadro democratico. Il rischio è l’imbarbarimento espresso in questi mesi dai conati ribellistici dei gilet gialli francesi, privi di interpreti politici e di strutture di incanalamento. A fronte di queste difficoltà a nulla vale imputare la sconfitta del lavoro a “tradimenti” e a “mutamenti genetici”.

La fiscalità resta lo strumento redistributivo per eccellenza. La tassazione dei redditi più alti non danneggia affatto l’economia. A decidere sono semmai i canali mediante i quali redistribuire il gettito fiscale e la scelta ragionata dei destinatari: gli investimenti tecnologici delle imprese, le infrastrutture, il trasporto pubblico, la qualità della vita e dell’ambiente, l’alta qualificazione della manodopera, l’assistenza, la formazione, la sanità e, a titolo temporaneo, i salari più bassi e i gruppi sociali più deboli. Ma vi è anche in questo caso un problema a monte. La fiscalità ha finanziato il welfare entro i confini nazionali, ossia entro ambiti territoriali omogenei e sottoposti a regole e controlli comuni. Oggi i paradisi fiscali e la mobilità del capitale rendono difficile tassare redditi e profitti (e a favore di chi?), mentre la frammentarietà dei processi produttivi ne complica la precisa localizzazione. Per Mounk e Crouch gli stati nazionali sono meno impotenti di quanto ci non si creda. Ciò non autorizza i deliri sovranisti. I controlli, più che a monte, possono essere disposti a valle, rendendo sempre tracciabili i movimenti in denaro, lasciando fuori solo le transazioni più esigue. Gli stati possono introdurre sanzioni penali fortemente dissuasive per i grandi evasori. Possono stringere accordi orizzontali purché nel rispetto di norme sovranazionali globali, in modo da scambiarsi informazioni corrette sui cicli produttivi e sui flussi commerciali per concordare regimi di tassazione equi per tutti i contraenti.

Va sfatata una delle leggende più perniciose degli ultimi decenni. Tra eguaglianza e produttività vi è un virtuoso legame reciproco. La redistribuzione mirata all’equità favorisce la crescita della produttività, specie a lungo termine; a sua volta ogni misura che incrementa la produttività favorisce la redistribuzione verso il basso, in modo indiretto (gli investimenti per riformare e sostenere i sistemi formativi ecc.) o diretto (il sostegno alla ricerca scientifica, gli incentivi all’innovazione tecnologica, la formazione permanente degli adulti in attività lavorativa ecc.). Anche un esteso sistema di protezioni giuridiche del lavoro avvantaggia lo sviluppo economico. La precarietà del lavoro arricchirà temporaneamente qualcuno, o darà ossigeno per un istante a qualche impresa in difficoltà, ma non crea sviluppo. Più in generale, «l’obiettivo è creare un mondo in cui la forza lavoro sia più specializzata e abbia il potere di negoziare stipendi più elevati».

Mounk auspica interventi che calmierino il mercato e suscitino rapidamente dei benefici redistributivi. In particolare, la costruzione nelle aree metropolitane di alloggi a costi di acquisto o di locazione sostenibili, potrebbe associarsi a una politica di incentivi edilizi a sostegno dei ceti medio-bassi e in genere di chi acquista la prima casa anziché dei costruttori, degli agenti immobiliari e dei grandi locatori.

«Modernizzare il sistema fiscale può procurare agli stati il denaro necessario per far fronte ai propri obblighi e mantenere il controllo sulle priorità di spesa. Riorganizzare il sistema degli alloggi può ridurre il costo della vita e aiutare a garantire che tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità. Rinnovare gli investimenti nella produttività può contribuire ad aumentare gli stipendi e migliorare la competitività dei lavoratori del futuro. Ma per essere inclusive, oltre che vivaci, le economie avanzate devono anche preservare una delle loro maggiori conquiste storiche: la capacità di proteggere i cittadini più vulnerabili dai principali rischi della vita, che vanno dalla malattia all’indigenza». Lo stato assistenziale è ancora fondato sull’assunto che i cittadini siano giovani che lavorano a tempo pieno. Sia i contributi che i benefici erano incentrati sull’occupazione. Il sistema privilegia chi va in pensione dopo decenni di lavoro a tempo pieno e sopravvive a lungo dopo il pensionamento, ma non dà coperture adeguate agli eserciti di outsider del mercato del lavoro come i lavoratori temporanei e part-time, i disoccupati a lungo termine e gli inoccupati al termine degli studi (in questa argomentazione è sottintesa una critica delle logiche demenziali che hanno indotto i grilloleghisti a introdurre la cosiddetta “quota 100”). Tuttavia, per far fronte agli obblighi pensionistici, al finanziamento dei sistemi sanitari e all’assistenza degli anziani, il livello delle tutele si è gravemente abbassato senza con questo restituire qualcosa alle categorie il cui futuro è poco o per niente tutelato.

«L’obiettivo più importante di un nuovo stato assistenziale dovrebbe essere quello di separare le prestazioni sociali dall’occupazione tradizionale. Le aziende devono continuare a condividere il peso dei servizi sociali, ma quelle che creano stabilmente occupazione non possono dare un contributo in proporzione più alto di quelle che creano pochi posti di lavoro e per giunta precari. Ugualmente, lo stato assistenziale deve sostenere chi si guadagna da vivere con il lavoro con i sacrifici di chi vive agiatamente di ricchezza accumulata. Non si deve pensare a un sistema ingeneroso pur di far quadrare i conti. La prioritaria tutela degli outsider del mercato del lavoro e l’equità tra generazioni possono essere sostenute anche da stati assistenziali generosi, che uniscono la flessibilità di un mercato del lavoro flessibile e meno protetto, ai benefici trasferibili che, sottraendo i giovani dai rischi dell’indigenza, offrono loro una rete di protezioni alternative. Questa oculata generosità potrebbe aumentare la produttività delle imprese, dei lavoratori autonomi e dei lavoratori dipendenti.

(fine quattordicesima puntata – Le prime tredici sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19, del 04.05.19, dell’11.05.19, del 18.05.19, del 25.05.19 , dell’ 1.06.19 e del 08.06.19).

[fine quattordicesima puntata]

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