Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Società

LUCE DI CANDELA

EDOARDO ZIN - 23/11/2017

candelaOrmai la città si è animata per Natale. C’è ressa nel centro. In piazza hanno acceso il grande albero e le strade sono illuminate e decorate. Accetto ormai questo usuale appuntamento e questa scenografia emotiva che mi fa ricordare un bel racconto di Dino Buzzati. Sì, ce n’è troppo di questo Natale cartolinesco, festaiolo e consumistico. Fa parte di un sentimento emotivo, culturale, ma relativizzo tutto: gli zampognari, le vetrine illuminate, il panettone e lo spumante. Lasciamo ciò ai bambini che hanno bisogno di favole. Non voglio condannare questo clima di festa, solo vorrei dargli motivazioni più profonde e gioie più autentiche e preferisco tenere i piedi per terra. Tiro fuori la mia Bibbia e leggo il capitolo V di Giovanni che sentirò proclamare domenica prossima in chiesa.

Lo sfondo ideale è un immaginario nel quale si tiene un dibattimento processuale fra Gesù e i giudei, che cercano di coglierlo in castagna perché aveva compiuto un miracolo il giorno di sabato. Penso a costoro e il mio pensiero corre agli assurdi rigoristi d’oggi interessati più a conservare le norme precise di pomposi riti incrostati di forme, di detriti folkloristici, di sprechi colossali e di un sacralismo fine a sé stesso.

Il processo a Gesù narrato da Giovanni mi fa ricordare un episodio della mia vita. Correva un crudo tempo dell’inverno belga: strade deserte e ghiacciate che percorrevo con la mia 850 per giungere nella capitale del Limburgo belga, dov’ero stato convocato in tribunale dal Procuratore del Re come teste a favore della scuola in cui insegnavo. L’istituto era accusato da una genitrice di aver “permesso al padre dell’allievo P. di aver carpito con l’inganno il figlio affidato alla madre, dopo una sentenza di divorzio”.

Arrivai tutto imbacuccato nella piazza in cui sorgeva il palazzo di Giustizia – di un bel gotico fiammeggiante – avvolto in una nebbia pungente. Quando fui chiamato a deporre, il presidente iniziò con una domanda: “Che cosa testimonia lei?”. Risposi come si svolsero i fatti. “Quali prove porta?” – “Ci sono altri testimoni?” “Ci sono regolamenti interni alla scuola in proposito?”- “Era lei a conoscenza…”. Le domande si facevano così sempre più incalzanti tanto che domandai l’aiuto dell’interprete, che all’inizio del dibattimento avevo rifiutato, per essere inequivocabile.

Anche i giudei sottopongono Gesù a un vero interrogatorio e dall’alto della loro saccenteria gli chiedono le testimonianze per provare che egli è veramente figlio di Dio. Gesù porta tre garanzie: quella di Giovanni il Battezzatore, quella delle opere da lui compiute e quella dello stesso suo Padre.

Lo fa senza cercare artifici né sofismi: “Giovanni – dice Gesù – è la lampada che arde e risplende.” Come Giovanni anch’io devo testimoniare che Gesù è figlio di Dio per dimostrare che “il regno è qui”. Ci rifletto: sono anch’io una semplice brace accesa che emette una fiammella con cui addentrarmi nel mondo d’oggi sempre più diviso, lacerato, frantumato, inquieto, preoccupato in cui vivo o sono un fulgore? Com’è possibile che io testimoni che Gesù è Dio e che le profezie si sono adempiute? “Basta che l’uomo abbia un senso” mi verrebbe da rispondere con un pensatore ateo. Ma vado oltre: il Battista mi ha detto che il Regno è in mezzo alla storia, è presente in tutti gli avvenimenti del mondo e anch’io potrei essere quella lampada, anch’io potrei essere interpellato come difensore, avvocato di Gesù per testimoniare la sua contemporaneità con l’uomo di oggi: basta che guardi il mondo con lo sguardo di Dio perché “dove non c’è più Dio, non c’è neppure l’uomo”. Sono chiamato a testimoniare questo umanesimo.

Ecco come vorrei essere: un innamorato della mia città, dei miei amici, dello studio, della moglie, dei figli e dei nipoti, del divertimento, della musica, della poesia e dei cori di montagna. Innamorato di tutto ciò perché innamorato di Gesù. Ma lo devo fare con mitezza perché la fede non è un vessillo da sbandierare sugli stendardi da battaglia. E’ piuttosto una luce di candela da reggere in mezzo al buio della mia vita quotidiana, non un mezzo per incendiare e incenerire il mondo.

Gesù porta a sua discolpa “le opere che il Padre mi ha mandato da compiere”. Le opere di Gesù come le guarigioni del lebbroso, del paralitico, la resurrezione di Lazzaro e del figlio della vedova, la moltiplicazione del pane e del vino, il cambiamento dell’acqua in vino, i miracoli insomma. Sono queste le sue opere? O sono anche il perdono verso la Samaritana, la chiamata di Matteo, di Pietro e degli altri apostoli che, con fervore, lo seguono e diffonderanno la sua parola? Finisco per fare il rendiconto dei miei anni: l’ho fatto con slancio o perché mi faceva comodo? E ho trafficato i talenti che stimo di possedere per vanagloria o per servire gli altri? Mi sono barricato nel mio egoismo o mi sono inserito nel concerto generale? Ho rinunziato a vantaggi o ho preferito azioni remunerative e più esteriori? Le “buone azioni” – come le chiamavano una volta – avevano il sapore della gratuita generosità o le compivo per conquistarmi una lode? Passano davanti al cuore tutte le opere colte e mancate, gli slanci e il crollo verticale, gli esempi e le omissioni.

Insomma, ho mille domande e solo briciole di risposte. Tento di vivere con opere che testimonino il suo amore, ma non possiedo formule da discutere con chi non l’ha incontrato. E come posso testimoniare Dio, che non ne ha alcun bisogno, con le mie opere? Lo farò cercando di distinguere tra tutto ciò che è atto di amore e ciò che diventa oltraggio per l’uomo, portando tutto all’essenziale: solo così potrò rispondere a chi l’attende.

L’arringa difensiva di Gesù continua: “Quelle stesse opere che io sto facendo testimoniano di me che il Padre mi ha mandato.” Gesù, Dio che si è fatto uomo, è la testimonianza del Padre. Solo diventando canuto, al varco supremo, sono stato afferrato da questa radicata verità. L’immagine di Dio che mi hanno presentato quand’ero ragazzo era quella di un Signore onnipotente, creatore del cielo e della terra, padre più attento ai miei peccati che non alle azioni giuste che pur compivo. Qui sta il Mistero: non mi sono fatto un’immagine del Figlio a mia somiglianza piuttosto che a somiglianza di Dio? Non vedo in Lui solo il salvatore dell’umanità, magari un rivoluzionario, un guru e non colui che testimonia il Padre che l’ha inviato qui nel mondo, in mezzo ad una sterminata scia di male, che, anche con il mio contributo, deve essere salvato? Dovrei richiamare in cuore questa Verità. Ricordarla (dal latino: re=indietro, cor=cuore) fino all’estremo momento quando, abbracciando il Padre, gli dirò – come ha scritto un filosofo a me caro -” Grazie anche per le sofferenze che mi hai dato. Grazie a te, infinito amore.” E Dio mi risponderà:” Grazie a te, amico mio, per l’uso che ho potuto fare di te.”

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login