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Stili di Vita

APPARTENENZA E IDENTITÀ

VALERIO CRUGNOLA - 12/07/2019

social-mediaQuattro ambiti della vita societaria facilitano il prosperare dei populismi: la comunicazione digitale; la mediocrità dei sistemi formativi; i rapporti tra i membri stabili di una comunità e i migranti; le relazioni di genere. Esaminiamo qui i primi due temi.

Mounk ci ricorda che «i social media hanno avuto un effetto così corrosivo sulla democrazia liberale solo perché le fondamenta morali del nostro sistema politico sono molto più fragili di quel che pensavamo». Dobbiamo «imparare a resistere all’impatto trasformativo di internet e dei social media». Anche chi li accetta supinamente può constatare i loro effetti nella sfera privata e pubblica. «Né Facebook né Twitter diverranno mai un esempio di civiltà e moderazione». Meno chiari sono i problemi retrostanti. Come possiamo conciliare al meglio la battaglia per salvaguardare la libertà di parola nel web dall’incitamento all’odio, dalle fake news, dalle falsificazioni storiche e dalle manipolazioni dei sentimenti senza ricorrere a censure aprioristiche, a maggior ragione – come si è visto con Harari – se il potere di censurare è affidato alle autorità statali e ai politici? Vi sono delle alternative alla regolamentazione invadente e censoria e all’inazione fatalista: l’adozione di codici comportamentali condivisi, l’autoregolazione, l’interdizione dei profili anonimi o con false identità e una diversa programmazione degli algoritmi che metta in primo piano non i siti più consultati e con più like ma quelli con stili argomentativi più appropriati e ricchi di informazioni di qualità.

«Per far sì che l’era digitale sia sicura per la democrazia, dobbiamo riuscire a incidere non solo su quali messaggi vengono diffusi sui social media, ma anche su come è più probabile che vengano ricevuti. Quando pensavamo che la democrazia fosse un esperimento fragile e azzardato, investivamo ampie risorse in campo educativo e intellettuale per diffondere il verbo del nostro sistema politico. Scuole e università sapevano che il loro compito più importante era quello di educare i cittadini. Scrittori e accademici riconoscevano che avevano una funzione cruciale nello spiegare e difendere le virtù della democrazia liberale. Nel corso degli anni questo senso di scopo è andato perduto. Ora che la democrazia liberale è in pericolo di vita, è giunto il momento di riesumarlo». I sistemi formativi, dall’infanzia fino agli studi altamente specialistici, sono il principale strumento per attuare le promesse della civiltà liberale – la messa in valore di ogni individuo – mediante l’inclusione, le pari opportunità, i criteri progressivi di merito e i sentimenti di appartenenza ad un’unica comunità politica e civile. Contro ogni buon senso, i sistemi sociali a bassa integrazione producono scuole e università segregative e di mediocre qualità che mortificano quello studio a cui sulla carta ciascuno ha diritto. Questo abbinamento spreca risorse finanziarie, crea risorse umane povere e dequalificate, rende impossibile colmare la necessità di un’ampia diffusione di elevate conoscenze di base, e abbassa la capacità del sistema liberale di suscitare nelle minoranze e nei ceti meno favoriti la condivisione di diritti e doveri. Premesso che le parole-rifugio che offrono panacee per tutti i mali vanno prese con cautela, si può convenire con Mounk: «L’educazione civica è un baluardo essenziale contro le tentazioni autoritarie. E dunque il modo migliore per difendere la democrazia liberale rimane lo stesso di sempre: prendere sul serio il compito di trasformare i ragazzi in cittadini». A questo principio possiamo affiancare il monito di un padre fondatore della democrazia americana, James Madison, ripreso da Mounk: «Un popolo che intende governarsi da solo deve armarsi del potere conferito dalla conoscenza. Un governo popolare, senza l’informazione popolare o i mezzi per acquisirla, non è che il prologo di una farsa o di una tragedia; o forse di entrambe».

Come non pensare alla pena di regime comminata a un’insegnante palermitana per avere rispettato questo elementare principio pedagogico: «Per essere fedele ai propri ideali, l’educazione civica deve includere sia le ingiustizie reali sia le grandi conquiste della democrazia liberale, e fare di tutto perché gli studenti siano pronti tanto a rettificare le prime quanto a difendere le seconde. Maestri e professori devono dedicare molto più tempo a sottolineare che le alternative ideologiche alla democrazia liberale, dal fascismo al comunismo, e dall’autocrazia alla teocrazia, sono ripugnanti oggi come lo erano in passato. E devono anche affermare con più decisione che la risposta giusta all’ipocrisia non consiste nel respingere principi attraenti spesso invocati in modo insincero, ma piuttosto nell’impegnarsi ancora di più perché vengano messi in pratica».

Il secondo cavallo di battaglia dei populisti è il nazionalismo: un animale bifronte, per metà selvatico, per metà addomesticato. Non possiamo liberare la bestia o consentire ad altri di aizzarne il lato più feroce. «Malgrado i fondati timori sul nazionalismo, non abbiamo altra scelta che addomesticarlo il meglio possibile».

L’appartenenza allo stato nazionale è un legame istituzionale e sentimentale ancora sentito, che ha anche effetti positivi, specie ora che gli altri canali partecipativi alla vita civile si sono indeboliti. Su questo collante fanno leva le esasperazioni identitarie degli xenofobi. Chi le contrasta in nome di un globalismo metafisico finisce per parlare a vuoto. Gli xenofobi «danno per scontato che le culture siano incontaminate; che appartengano per sempre a gruppi specifici; e che debbano esserci dei limiti rigorosi al loro grado di influenza reciproca». Chi contro di loro invoca un multiculturalismo inclusivo, prende per vera la stessa visione immobilista di culture non permeabili e finisce per erigere barriere protezioniste attorno alle minoranze.

Xenofobi come Trump invocano un “nazionalismo escludente”, quando il vero motivo d’orgoglio della società americana, pur nei suoi smisurati difetti, è il “patriottismo inclusivo”, secondo il quale i legami tra i cittadini oltrepassano le etnie e le convinzioni religiose e filosofiche. Le nazioni, come scrisse Benedict Anderson, sono “comunità immaginate”. Non per questo sono un volatile artificio o un’inamovibile pietra tombale. La loro percezione muta a seconda dei modi in cui vengono vissute e descritte. Il senso di appartenenza non può imporsi né ai membri di quella comunità né a terzi, ma nemmeno autorizza un marito a malmenare la moglie in nome di una “cultura d’origine” che tollera le punizioni corporali e la discriminazione di genere, come un multiculturalismo coerente dovrebbe volere. Tra chi ostacola l’inclusione, Crouch associa ai sovranisti e ai multiculturalisti i comunitaristi, secondo i quali lo stato sociale è sorto e si conserva grazie al legame identitario a priori che impronta un popolo. Per loro le minoranze etniche, estranee a questo legame, demoliscono i sentimenti di sostegno reciproco. Nessuna comunità nazionale, obietta Crouch, suscita e preserva i sentimenti umani. Specie oggi. «Un mondo in cui la politica democratica rimane intrappolata a livello nazionale è un mondo in cui l’ordine neoliberista al di là della portata della democrazia continuerà a dominare il piano economico sovranazionale».

Nota Mounk: «La totale accettazione dei timori relativi all’appropriazione culturale nuocerebbe molto all’ideale di una società in cui i cittadini condividono esperienze che travalicano i confini razziali e culturali: o accettiamo l’influenza reciproca di culture diverse come un elemento indispensabile (e desiderabile) di qualsiasi società eterogenea, o la contrastiamo creando sfere separate per ogni cultura e gruppo etnico». «La promessa della democrazia multietnica, in cui individui di ogni credo e colore sono considerati davvero uguali, non è negoziabile. I paesi con una visione profondamente monoetnica di sé possono avere grandi difficoltà ad accettare i nuovi arrivati e le minoranze, ma questa trasformazione è l’unica alternativa realistica alla tirannia e ai dissidi interni». «L’unica società capace di trattare tutti i suoi membri con rispetto è quella in cui ogni individuo gode di diritti per il fatto di essere un cittadino, non per il fatto di appartenere a un determinato gruppo».

In coerenza con i principi liberali le persone provenienti da altri paesi ma già presenti nel territorio di uno stato (o di una comunità sovranazionale fondata sui medesimi principi costituzionali) devono godere dei medesimi diritti di chi già vi si è insediato da tempo. Tra essi spiccano per importanza: l’acquisizione della cittadinanza in tempi ragionevoli per i migranti di prima generazione, e per nascita a partire dalla seconda generazione; i ricongiungimenti familiari; la rimozione delle barriere linguistiche o nell’accesso ai servizi assistenziali, sanitari e formativi e altri ostacoli all’integrazione e alle pari opportunità. Ma nessun principio liberale viene violato se uno stato controlla i flussi migratori ai propri confini. Il problema riguarda non il controllo di per sé, ma le sue modalità, che devono rispettare le convenzioni internazionali sui diritti umani e mettere al bando metodi violenti, illiberali, coercitivi e discriminatori. Anche «le regole sulla quantità di persone ammesse nel paese dovrebbero essere oggetto di discussione democratica»: previa un’informazione adeguata e libera da veleni elettoralistici.

La centralità del lavoro riaffiora anche in materia identitaria. Finché l’Occidente ha goduto di un sistema occupazionale ben retribuito, stabile e sindacalmente protetto, i ceti medi e il proletariato industriale strutturavano il senso della loro vita entro un complesso di relazioni sociali che facevano perno sul lavoro e sulla sua emancipazione. «Man mano che l’identità “guadagnata” gli scivola tra le mani, è probabile [che quei ceti] assumano un’identità “arbitraria”, facendo dell’etnia, della religione e della nazionalità il centro della loro visione del mondo. Questa trasformazione culturale aiuta a spiegare il distacco sempre più ampio tra chi scende la scala sociale o è già povero da un lato, e chi sale nella scala sociale o è già benestante, dall’altro». Chi ha conquistato un’identità sociale sfugge come inconsistenti le identità arbitrarie. Ma chi resta ai margini di una qualche identità produttiva che fornisca un criterio di senso, nutre un crescente risentimento verso chi quel criterio mantiene e verso chi, a parità di condizioni, appartiene ad altri gruppi etnici o religiosi o ha inclinazioni sessuali diverse. «I populisti sono molto bravi a trasformare in un’arma queste forme di risentimento: la loro retorica punta a prendere sia la rabbia crescente verso i ricchi per rivolgerla contro l’élite di governo, sia l’attenzione crescente all’identità arbitraria per rivolgerla contro gli immigrati e le minoranze etniche e religiose». Il principale campo di battaglia contro il populismo è, come abbiamo ripetuto fino alla nausea, quello relativo all’equità, il solo modo per costringere i vincitori della globalizzazione a riconoscere la loro dipendenza dai «compatrioti meno fortunati». Ma da sola la riduzione delle disuguaglianze non basterà a restituire agli individui un senso di appartenenza e di identità fondato sul lavoro.

 (fine diciassettesima puntata – Le precedenti sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19, del 04.05.19, dell’11.05.19, del 18.05.19, del 25.05.19, dell’ 1.06.19, del 08.06.19, del 15.06.19, del 29.06.19 e del 06.7.19).

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